Il postino suona sempre due volte, sin dal momento della sua uscita, nel 1934, ha saputo imporsi come classico. Il grande successo ha fatto sì che molti degli elementi presenti nel romanzo si trasformassero automaticamente in topoi del genere hard-boiled, e che di conseguenza l’autore, James M. Cain, al pari di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, guadagnasse all’istante un posto d’onore nell’Olimpo del noir. 

Ma il successo così clamoroso del romanzo, indica la presenza di un qualcosa che va ben al di là del ristretto perimetro di genere. La prosa particolarmente cruda, lo stile rapido e asciutto, lo sguardo spietato sulle cose, fanno di Cain uno dei più grandi, sinceri e disperati cantori del lato più oscuro del Sogno Americano, che più che ai già citati Chandler e Hammett, lo avvicina ad autori del calibro di Charles Bukowski, Raymond Carver e John Fante. 

Questo romanzo, suo assoluto capolavoro, ruota attorno al punto cardine della poetica di Cain, ovvero la convinzione di come l’uomo sia naturalmente incline al male e di come, conseguentemente, l’unica possibilità di salvezza sia la più dolorosa redenzione. La trama è assai nota: il giramondo Frank Chambers conosce in una taverna Cora, moglie del titolare e donna animata da una sensualità esplosiva. Tra i due esplode all’istante una passione violenta e travolgente, che culmina nel proposito di uccidere il marito di Cora, il repellente Pappadakis. Fallito il primo tentativo di omicidio per l’improvviso pentimento della donna, mentre il secondo, un’ingegnosa simulazione di incidente stradale messa in atto con la complicità di un ambiguo avvocato, riesce. Finalmente liberi di vivere la loro passione senza nascondersi, Frank e Cora si scoprono distanti anni luce: lui eterno vagabondo di strada e lei donna borghese. Ed entrambi divorati dal senso di colpa. La notizia della gravidanza di Cora sembra tuttavia portare la storia verso il lieto fine, ma la donna incinta muore in un incidente stradale, una sorta di contrappasso per l’omicidio commesso. Mentre Frank, arrestato per l’omicidio di Pappadakis e condannato a morte, cerca a un passo dalla fine il senso di una vita sbagliata nell’amore ad ogni modo sincero provato per Cora. 

Gli elementi per un successo mondiale, come poi puntualmente avverrà, ci sono tutti. Così come nel plot vi sono tutte le caratteristiche per un adattamento cinematografico. Non a caso, di versioni sul grande schermo questo romanzo ne conta addirittura cinque, tra cui la più universalmente nota è quella del 1981 con gli strepitosi Jack Nicholson e Jessica Lange, per la regia di Bob Rafelson. 

Eppure, a nostro avviso, la più efficace e fedele al romanzo, benché a un primo sguardo sia quella che se ne discosta maggiormente, è Ossessione di Luchino Visconti, uscito nel 1943, con Chiara Calamai e Remo Girotti. 

Di certo, Visconti opta per un adattamento del tutto libero, usando il romanzo di Cain come un canovaccio di cui seguire solo la linea narrativa generale. Spogliata di ogni atmosfera thriller-noir, che è l’ossatura portante del romanzo, della storia, trasposta sull’Oltrepò, resta l’attrazione fatale, la passione incontrollabile e delittuosa dei due amanti, l’omicidio, l’impossibile costruzione di un amore, il rimorso, la morte della donna e l’arresto del vagabondo. 

In altre parole, se l’architettura ne esce stravolta, l’anima resta intatta. Forse, addirittura, viene esaltata. 

Anche Visconti sembra interessato alla raffigurazione di un’umanità incline, quale che sia la classe sociale di appartenenza, al male, capace di trovare pace non nell’assenza di colpa, ma solo nella redenzione a delitto compiuto. Ma se questo discorso è abbastanza scoperto, vi è un altro aspetto molto più nascosto ma ugualmente importante che sottolinea l’estrema vicinanza tra film e romanzo. Vale a dire che il romanzo, come già accennato, è un’opera di rottura e disvelamento sociale, che va a rappresentare un’America tutt’altro che idilliaca, tutt’altro che patria del riscatto e delle grandi speranze. Il film di Visconti si muove nello stesso senso, ovvero nella raffigurazione di un’Italia feroce e assassina, becera e borghese, in aperta opposizione all’immagine idilliaca che il fascismo, e il cinema fascista, a partire da quello dei cosiddetti “telefoni bianchi” intendeva trasmettere. Il crudo realismo, lo sguardo tutt’altro che indulgente di Visconti, sono autentici pugni in faccia al regime, così come la penna spietata di Cain lo era per il mito dell’American Dream. 

E se Visconti riesce più di chiunque altro – questa carica eversiva è del tutto assente nel capolavoro di Rafelson del 1981 – a cogliere l’anima del romanzo pur dirigendo un film lontano anni luce per atmosfere, ambientazione e meccanismi narrativi, riesce anche a sfruttare le potenzialità di un congegno romanzesco così perfetto per inventare un modo del tutto nuovo di fare cinema. 

In molti hanno visto, o hanno voluto vedere, in Ossessione, il vero “anno zero” del neorealismo italiano. Affermazione senz’altro non veritiera, anche solo perché questo film manca dell’intento, per così dire, “sociologico” del neorealismo, di quel bisogno di indagine e racconto della realtà così come è. E allo stesso modo risulta lontano anni luce dal neorealismo nello schema narrativo del più torbido melodramma. 

Ma è pur vero, tuttavia, che del neorealismo che sarà anticipa ambientazioni e raffigurazioni della gente comune, nonché la rappresentazioni di quell’Italia disperata e sotterranea che il regime voleva a tutti i costi nascondere sotto il tappeto. 

Ed è innegabile come Visconti, con questo grande film, rivoluzioni la grammatica cinematografica classica in maniera sostanziale, ben prima di Roma città aperta, Ladri di biciclette e del suo stesso La terra trema

C’è anzitutto un ribaltamento di genere dentro la storia, vale a dire che per la prima volta è il corpo di un uomo a essere oggetto del desiderio dello sguardo di una donna. Un rovesciamento totale di prospettiva sottolineato da una magistrale e indimenticabile sequenza iniziale: vediamo il vagabondo, Gino, solo di spalle, e ci viene rivelato solo quando è la donna, Giovanna, a vederlo, attraverso un meraviglioso carrello in soggettiva. 

Non la nascita del neorealismo ma una liberazione stilistica verso una nuova, magnifica e rivoluzionaria grammatica filmica che proprio nel neorealismo troverà la sua casa ideale e il suo compimento. 

Pensare che tutto parta dal soggetto per eccellenza del genere hard-boiled sembra quasi uno scherzo della natura. Uno splendido paradosso a definitiva testimonianza, qualora ce ne fosse bisogno, di come l’arte, quella vera, quella destinata a cambiare il corso delle cose, sia prima di ogni altra cosa mescolanza, contaminazione. 

Nient’altro. 

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