Napoli. Antonio Semola (Tognazzi) è un uomo che vive di espedienti che conosce per caso in un convento Maria (Annie Girardot), una ragazza completamente ricoperta di peli. Fiutato l’affare, circuisce la giovane abituata a nascondersi al mondo e ottiene dalle monache il suo affidamento. Privo di scrupoli, Antonio sfrutta l’arrendevolezza della donna-scimmia per sfruttarla come fenomeno da baraccone. Quando il rapporto sembra stabilizzarsi e la felicità domestica affacciarsi, insieme alla raggiunta tranquillità economica Maria resta incinta. Il dottore suggerisce l’aborto ma, dopo un drammatico confronto tra coniugi, la coppia decide di portare avanti la gravidanza. Antonio assiste la moglie nel migliore dei modi possibile ma né la donna né il nascituro sopravvivono al parto. Antonio rimane solo con il suo lutto ma si riprende presto: dopo aver lasciato i corpi della moglie e del figlioletto a un museo, li richiede per poterli esporre imbalsamati in tournée. L’ultima scena ci mostra il protagonista invitare gli spettatori a entrare ma il suo cinico spettacolo attrae solo parte del pubblico, mentre una buona metà si allontana dal tendone…

Al duo Ferreri-Azcona che firma insieme la sceneggiatura, il soggetto del film venne ispirato dalla vicenda di Julia Pastrana, un’indigena messicana interamente ricoperta di peluria che venne esibita dal marito nei freak show dell’Ottocento, morta di parto insieme al suo barbuto neonato. Regista e sceneggiatore inoltre dovevano avere ben presenti altre referenze: quella di santa Starosta vergine che vide esaudita con barba e baffi la sua richiesta a Dio di diventare indesiderabile per sottrarsi alle nozze con un principe pagano (un’eco della vicenda può essere riscontrata nel film durante l’iniziale proiezione nel convento “Dio piange finché ci sarà un sol pagano sulla faccia della terra”) e quella del dipinto di Jusepe de Ribera Maddalena Ventura con il marito e il figlio (1631) conservato al Museo del Prado di Madrid e per questo probabilmente noto ai due. In mezzo a tanto “ispanismo” non sorprende che la vicenda sia ambientata a Napoli, la città più borbonica d’Italia, che legittima anche una credibile ambientazione “secentesca” che pare essere uscita direttamente dalle pagine di Basile, tanto è “plebea, miserabile, chiassosa, turpe”.

Ottenuto il visto di censura l’8 gennaio 1964 con divieto ai minori di 14 anni, La donna scimmia venne proiettato per la prima volta al Metropolitan di Bologna il 29 gennaio, facendo abbastanza scalpore nonostante l’intervento preventivo del produttore Carlo Ponti che, inorridito di fronte alla portata dissacrante e disturbante del finale del tutto simile a quello della vicenda della Pastrana,  in alcune città distribuì una versione “tronca” che termina con la morte di Maria. Come l’anno precedente per L’ape regina, il lavoro di Ferreri fu vittima di tagli, che gli procurarono però il sostegno di voci autorevoli: “la scena conclusiva è stata in seguito tagliata dalla produzione. Non posso che dispiacermene così nel caso particolare, perché era una conclusione logica e, nella sua crudeltà, illuminante; come in generale, perché un’opera d’arte andrebbe sempre presentata nella sua integrità” scrisse Alberto Moravia mentre ci fu chi si rammaricò che “così come al pubblico accadrà di vederla, la paradossale favola apprestataci da Ferreri viene ad acquietarsi in un intenerito clima di commedia alla Molnar, buon’anima, priva del risvolto mordente che avrebbe condotto lo spettatore alla riflessione, a una più precisa presa di posizione raziocinante”.

Lo stesso Tognazzi anni dopo sottolineò che in generale il film “non fu capito. Se qualcuno lo rivedesse oggi, lo troverebbe non solo normale ma in più vi vedrebbe una piccola storia poetica senza alcuna traccia di scandalo”. Questa tesi è sostenuta anche da Rafael Azcona che rispose ironicamente a un giornalista che gli chiedeva se il film fosse crudele “non direi. In fondo si tratta di una donna sfruttata perché ha i peli. Quante modelle vengono sfruttate perché i peli non li hanno?”

Ma cos’è La donna scimmia? È una riflessione sulla vera natura della mostruosità, apparente ed esteriore in Maria, molto più radicata e profonda in Antonio. A una sensibilità contemporanea il film può sembrare anche una parodia del mondo dello spettacolo, che si nutre di sguardi sempre più indiscreti in continua ricerca di casi estremi. È certo anche “un grottesco che continua con sgradevole genialità il discorso sull’anormalità familiare e sulla dimensione mostruosamente economica della convivenza sociale avviato con L’ape regina”. Inoltre “Ferreri rassomiglia ad un rivoltato di tipo sadico e profanatorio come Jean Genet. E il suo gusto per l’orrido, il ripugnante e il deforme ha nella sua opera la stessa funzione demistificatrice che l’erotismo in quella di Genet”. 

La stampa apprezzò soprattutto le interpretazioni dei due protagonisti. Plauso generale accolse il coraggio della francese Annie Girardot di accettare il ruolo difficile e controcorrente di una donna-mostro innocente e infantile, che dorme con una bambola ai piedi del letto e si lamenta con Antonio perché durante la sua esibizione “alcuni sporcaccioni” approfittano per toccarla. Una parte terribilmente ingrata affrontata con grande cura dei gesti e di una caratterizzazione “eccezionale per efficacia e intelligenza della parte”. La Girardot dà vita a un personaggio di grande umanità, che non accetta d’essere trattata come una merce (“non sono un fenomeno, sono una donna” risponde all’offerta di Antonio che vuole che resti in casa del professore che cerca di approfittarsi di lei) e finisce con l’innamorarsi del suo manager.

I giudizi sulla prova di Tognazzi furono invece discordanti passando dalla tiepida accoglienza ad altri più positivi, fino a una promozione a pieni voti. Personalmente ritengo che l’attore cremonese fornisca una performance di grande qualità, animando un fior di mascalzone tatuato che usa la bandiera d’Italia come lenzuolo, credibile sia come imbonitore da quattro soldi che come lenone o truffatore. Antonio è un personaggio riuscito sia nel mostrarsi prepotente (penso ai rimproveri a Maria che non impara a imitare gli scimpanzè “non sei intelligente. Tu i peli li hai nel cervello” o quando le ricorda che “appunto perché sei mia moglie fai quello che voglio io” per costringerla a cantare durante il corteo nuziale) sia nel fare leva sulla forza di persuasione o la tenerezza per raggiungere il suo scopo (come nella scena iniziale quando cerca di vincere le perplessità della donna che non vuole lasciare il convento “ti piacerebbe vivere come tutte le altre? Venire fuori con me? Dì la verità che ti piacerebbe… ebbene hai trovato me che sono un genio” oppure quando cerca di convincere la moglie che “se vuoi che il bambino nasca bellissimo come questo, devi solo guardare le fotografie”). In definitiva, “forse la miglior prova della maturità raggiunta dall’attore nel controllo delle sue risorse espressive è in La donna scimmia”: un ruolo che contribuisce a rafforzare il legame tra Tognazzi e Ferreri.


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