St. Pauli è il quartiere di Amburgo che sorge intorno all’importante Reeperbahn noto soprattutto per i locali a luci rosse, la tifoseria organizzata della squadra di calcio locale autoproclamatasi “la più di sinistra del mondo” e una mitica serie di concerti dei Beatles ai loro albori.
St. Pauli è però anche il teatro degli efferati delitti di un omicida seriale, tale Fritz Honka, che negli anni Settanta massacrò quattro donne. Un tipetto niente male che cercava le sue vittime tra le prostitute che bazzicavano il quartiere per poi massacrarle, farle a pezzi e – non riuscendo a occultarne i cadaveri – nasconderle nella mansarda del suo appartamento cercando di coprire l’odore con massicce dosi di deodoranti.
Dalla nota vicenda di cronaca nera di cui tralasciamo i disgustosi particolari a chi li vorrà approfondire, il regista tedesco di origini turche Fatih Akin ha tratto il film Il mostro di st. Pauli (2019) che personalmente considero passato un po’ sottotraccia. Dopo il successo ottenuto due anni prima con Oltre la notte (vincitore del Golden Globe come miglior film straniero e premiato a Cannes con il palmares per l’interpretazione della protagonista Diane Kruger) la critica forse si aspettava che l’autore innalzasse ulteriormente la qualità del suo cinema e Der Goldene Handschuh (letteralmente Il guanto d’oro, dal nome del pub dove Honka adescava le sue vittime) probabilmente ha deluso le attese. Ma davvero è questo il motivo dell’insuccesso del film?
Costruito intorno alla performance attoriale del giovane Jonas Dassler, invecchiato e imbruttito ad arte per somigliare a Honka, il film è tratto dal romanzo di Heinz Strunk che mostra la vera essenza di un omicida seriale. Il mondo di Honka è uno squallido peregrinare intorno alla bottiglia (tara ereditata dal padre alcolizzato), popolato di derelitti che trascinano esistenze senza nessuna possibilità di riscatto. Sangue, piscio, sperma sono gli umori che alimentano questo sottobosco di disperazione: nessuna concessione al fascino del cattivo tanto amato da Hollywood e alla sua natura estetizzante il più delle volte consolatoria (quelli di BIM Distribuzione sembrano gli unici a non averlo capito, proponendo un trailer palesemente ispirato ad Arancia Meccanica – massimo esempio di violenza artistica sul grande schermo). E distanza abissale anche dal sadismo totalizzante e annichilente del quasi contemporaneo La casa di Jack di Von Trier, quello sì effettivamente disturbante al punto da offrire una visione quasi insostenibile.
Per quanto depravato, il serial killer tedesco non ha niente che lo renda in qualche misura diverso dagli altri. L’omicida può essere chiunque, il nostro vicino di casa oppure quell’ometto insignificante e taciturno che trangugia in disparte boccali di birra e bicchierini di grappa…“Honka era una persona reale del mio quartiere. Era una figura spaventosa della mia infanzia” commenterà il regista: questa è – a mio avviso – la ragione profonda dell’insuccesso del film e della (parziale) incomprensione da parte della critica.
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