Sono trascorsi più di trent’anni dalla morte di Gianni Brera (19 dicembre 1992) e il 2019 è stato il centenario della sua nascita, a San Zenone al Po, piccolo comune del Basso Pavese, alla sinistra del Po e vicino all’Olona che attraversa il paese. Nell’immaginario paese di Pianariva (che è diventato il secondo nome di San Zenone) è ambientata la storia de Il corpo della ragassa, uscito in prima edizione per Longanesi nel 1969, primo romanzo di Gianni Brera, da cui è tratto il film diretto da Pasquale Festa Campanile nel 1979. Il cantore degli eroi sportivi, l’aedo di innumerevoli podomachie (neologismo breriano), il più grande giornalista sportivo di carta stampata soprattutto sul piano della prosa e dello stile, è sempre al centro di convegni, studi, pubblicazioni. In futuro sarà assai più facile rievocare lo specifico breriano partendo dalla sua inventiva verbale, dalla sua spiccata tendenza all’onomaturgia e alla creazione di epiteti scultorei. Gianni Brera fu definito “Gadda (spiegato ai) dei poveri” da Umberto Eco. Un’etichetta un po’ inclemente, soprattutto non centrata. Brera rispose per le rime (gli diede del pirla) aggiungendo che scriveva “cronacazze muscolari”, e non indulgeva certo, come il Gadda, nell’arte di intarsiare “cacatielle di galline”. E lo diceva pur conoscendo e stimando oltremodo il nostro Carlo Emilio.
Nel numero 3 dei Quaderni dell’Arcimatto (rivista di studi Breriani) è imperdibile il saggio di Claudio Gregori, “Nell’officina linguistica di Brera”, che contiene la prima parte di un lemmario (A-F) nel quale il lettore troverà sicuramente molte chicche linguistiche in materia di neologismi e repêchage lessicali dalle lingue classiche. La più famosa invenzione lessicale di Brera è senza dubbio Eupalla, la dea pregata dai calciatori, la Musa che protegge, se invocata, tutti i devoti del moderno arpasto ossia del folber (altro termine dialettale amato Brera: indica il giuoco del pallone praticato soprattutto sui sabbioni del Po), il futebol di Herreriana memoria.
Un altro dei suoi più originali neologismi è l’aggettivo “palabratico” (formato dallo spagnolo “palabra”) per definire l’inarrestabile compulsione affabulatoria dei soggetti più inclini alla dispersione dei flussi verbali.
L’aggettivo “intramontabile” è da tutti attribuito a Gianni Brera, che lo coniò nel 1945, in riferimento a Giuseppe Lippi (e non al concittadino Bartali). In realtà, come precisa Orso Maria Giovanni Brera, alias Franco Brera, figlio di Gianni Brera, nel libro “Mai Paura” (Cinquesensi editore), “intramontabile” era già usato nella seconda metà del XIX secolo: lo si trova nel primo volume de I Ducati Estensi del 1815, di Nicomede Bianchi, edito a Torino nel 1852.
Tutti ricordano i nickname (o epiteti antonomastici) che Brera appioppò a molti fuoriclasse della pedata: “Rombo di Tuono” (Gigi Riva), “Bonimba” (Boninsegna), “Abatino” (Gianni Rivera); ma uno dei più belli resta il “Conileone” (riferito a Josè Altafini), parola composta da coniglio e leone, che oltre ad essere un appellativo di straordinaria valenza icastica, è anche un’originale creazione in materia di zoologia fantastica degna di Luciano di Samòsata. Ma vi consiglio di leggervi dall’inizio alla fine “Il calciolinguaggio di Gianni Brera” a cura di Andrea Maietti, un cultore di studi breriani, che ha fra l’altro curato per Il Giorno un’antologia di cronache calcistiche pubblicate sui principali quotidiani, con annesso un glossario molto dettagliato.
La produzione giornalistica di Gianni Brera è legata soprattutto alla Gazzetta dello Sport, al Giorno e al Guerin Sportivo (dove tenne la rubrica l’Arcimatto). Per la Gazza creò uno dei suoi primi neologismi, “delfinare”, riferito al movimento ondulatorio dell’aereo che lo stava portando in Svezia per il suo primo servizio estero: “il vento gagliardo costringeva il grande aereo a delfinare sbatacchiando le ali”.
A proposito di ironica inventiva verbale, Claudio Gregori ha raccontato un aneddoto secondo me esilarante. Un giovane Brera paracadutista, nella seconda guerra mondiale, a Tarquinia, ricorre al latino per rispondere all’osservazione di un soldato tedesco che aveva commentato un imperfetto atterraggio di Brera con l’ironica frase “Sie sind nicht gut trainiert”: il vento lo aveva fatto probabilmente cadere male. Brera rispose allo spiritoso sturmtruppen:
I ad defecandum, Ciulenmeister
Brera sapeva il latino e il greco, e fu l’unico a scrivere un’intera intervista nell’idioma di Cicerone sul traghetto da Stoccolma a Turku, all’atleta Paavo Nurmi. Pubblicata il 30 giugno 1946 sulla Gazzetta dello Sport.
La pagina della Gazzetta dello Sport del 30 agosto 1954 che riporta le eccezionali prestazioni del russo Kuts (in realtà andrebbe scritto Kuc) ai mondiali di atletica, sottolineate dalla titolazione della Gazza (di cui Brera era diventato direttore all’età di trent’anni) sono forse alla base del conflitto tra “Gioannfucarlo” e la proprietà editoriale, dissidio che causò l’uscita di Brera dal più grande quotidiano sportivo italiano al quale era stato chiamato da Bruno Roghi. In pratica, i Bonacossa (la famiglia proprietaria, allora, della Gazzetta dello Sport) ritennero filo-comunista Brera perché aveva evidenziato la vittoria di un russo ai mondiali di atletica, un russo che, per giunta, aveva annientato il mitico Zatopek, recordman ungherese. Occhio: siamo in pieno clima da Guerra Fredda, e di lì a poco (ottobre 1956) l’Unione Sovietica avrebbe invaso l’Ungheria.
Che le cose tra Brera e la proprietà della Gazzetta siano andate veramente così o in altro modo, resta il fatto – secondo me- che l’eternità intergenerazionale del mito di Gianni Brera, la sua precipua eredità ai posteri sarà sempre più legata all’innovazione e alla multiforme vivacità linguistica che caratterizza lo “bello stilo” delle sue pagine. Non starò qui a ricordare i tantissimi neologismi coniati da Brera non solo nell’ambito calcistico (dove ancora oggi usiamo inconsapevolmente termini da lui forgiati, come “centrocampista” “libero” “incornare” “goleador”); fra i più geniali neoconii verbali brillano gli epiteti di cui coronava i calciatori più meritevoli, nel bene e nel male, d’essere eternati nella scultura di quei nomi-motti: Rombo di Tuono (Riva), Gazzosino (Oriali), Abatino (Rivera), Puliciclone (Pulici), Bonimba (Boninsegna), per citarne solo alcuni fra i più noti.
Ma di fronte a fenomeni del calcio anche l’alta possa della fantasia breriana veniva meno: Paolo Casarin, uno dei più famosi arbitri del mondo, ha raccontato un aneddoto a me ignoto fino ad oggi. Brera chiamò in piena notte Casarin per convocarlo urgentemente, quasi fosse questione di vita o di morte, in un ristorante milanese; Casarin obbedì, nonostante l’oraccia tarda e malandrina, e giunto alla meta apprese poi che il motivo di cotanta prescia era il seguente: quale animale, quale fiera si poteva scomodare per etichettare con l’acconcio nonché icastico e imperituro esergo di un soprannome, quel portento naturale di Maradona? Brera domandava e si domandava a quale regno animale poteva appellarsi. Non se ne venne a capo, se ho ben compreso. Anche perché il Maradona calciatore unisce la grazia di un’antilope, la forza quadrata e incoercibile di un toro, la levità di una libellula. Sarebbe stata un’impresa anche per Omero, il primo campione e maestro degli epiteti. (Leggendo l’appendice di “Mai Paura, Gianni Brera dalla A alla Z” di Orso Maria Giovanni Brera, alias Franco Brera, scopro che fra gli appellativi di Maradona attribuiti a Gianni Brera figurano “Il Divino Scorfano” e “Re Puma”).
Brera morì in un incidente stradale, nel 1992, mentre guidava dopo una cena che immagino felice per bontà di portate irrorata da squisito Bacco. “È morto come un ragazzino, ha detto il TG2, all’uscito della discoteca”, scrive Franco Brera. Le “pacciade” erano il solo, autentico lusso della sua vita. Fra le tante cose, Brera era un gourmet, un esperto di argomenti enogastronomici (ha scritto fra l’altro “Come assaggiare il vino”) soprattutto quando cucina e vino rimandavano alla Lombardia, e alla pianura padana in particolare (ha scritto anche una ponderosa Storia dei Lombardi). L’incidente automobilistico avvenne appunto in un anno cruciale per la storia italiana. Chissà come avrebbe vissuto e commentato i cambiamenti nel mondo del calcio: cosa avrebbe detto Brera sul Var? Secondo Casarin, non lo avrebbe criticato, soprattutto se funzionale alla correttezza e alla giustizia sportiva. Certo, non avrebbe risparmiato i suoi strali alla lentezza delle scelte arbitrali: 4 minuti per vedere, rivedere, e arrivedere l’azione. Casarin ha ricordato che Gianni Brera aveva già intuito che la velocità avrebbe cambiato il calcio, e non solo purtroppo quello.
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