Peter Lorre, l’indimenticabile interprete di M – Il mostro di Düsseldorf (M – Eine Stadt sucht einen Mörder, 1931), dirige sé stesso all’indomani della guerra in un film che appare come il seguito di quello di Fritz Lang: stessi quesiti sulla patologia del nazismo, stessa denuncia dei demoni che infestavano la deriva del paese, l’identico desiderio di punizione e di esorcismo. Una pericolosa esplorazione nell’abisso.
Ad Amburgo, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il dottor Karl Rothe (Peter Lorre), che ha preso il nome di Neumeister, lavora in un campo profughi. Un giorno vede apparire il suo ex collega Hösch sotto il nome di Nowak. I due uomini condividono un oscuro segreto. Nel 1943 Hösch aveva aiutato Karl, d’accordo con un certo colonnello Winkler, a insabbiare l’omicidio della sua ragazza Inge. Rothe, infatti, incaricato dal regime nazista di oscure ricerche scientifiche, l’aveva strangolata quando Hösch e Winkler gli avevano detto che la sua fidanzata lo tradiva comunicando a Londra i risultati del suo lavoro.
Un uomo perduto trattava un argomento troppo cupo e non ebbe successo: sei anni dopo la sconfitta tedesca, il Paese non era certo pronto a “sopportare” un’opera così oscura e disperata, perseguitata dal senso di colpa. Peter Lorre non fu più in grado di dirigere un altro film. Anche perché i critici dell’epoca decretarono che era un’opera semplicemente brutta. Lorre era un attore formidabile, dalla performance unica. Un volto che comunica senso di colpa, impotenza, corruzione e una mezza dozzina di altre emozioni, spesso tutte insieme. Ci sono stati pochi attori come lui capaci di esprimere il tumulto interiore di persone che si sono compromesse in tempo di guerra.
Lotte Eisner ne fece un ritratto molto preciso: «Un fisico molle, poco attraente, occhi sporgenti, un viso soffice, una bocca con grandi labbra indecise, [una] voce con intonazioni metà insidiose, metà stranamente eccitanti e dove i suoni acuti si mescolavano a quelli bassi. A causa della sua apparente malvagità, era l’attore preferito del Führer e di Goebbels, prima che si rendessero conto che era ebreo».
La critica del tempo sosteneva che Lorre era un interprete senza eguali nella storia del cinema, ma non un regista, fallendo sistematicamente tutte le inquadrature e producendo un film traballante, amatoriale e piuttosto noioso. La sceneggiatura era confusa, non si sapeva mai veramente di cosa si stesse occupando: Lorre parlava allo stesso tempo delle pulsioni omicide del suo eroe, che ricordavano appunto M, della ricostruzione della Germania dopo la guerra, degli assassini che ancora vagavano nel paese, di vendetta, e di altro ancora, mentre girava un film di spionaggio e delineava un forte ritratto psicologico. Saltava spudoratamente da un argomento all’altro, abbandonando il tema precedente a metà per affrontare quello successivo. Una storia complessa e incomprensibile nella quale lo spettatore si perdeva, che confondeva tutti i riferimenti geografici e utilizzava i flashback in maniera esagerata. Troppi dialoghi, scritti male, che lasciavano poco spazio alla regia, un “film radiofonico” che risulta poco emozionante. Certo, di tanto in tanto comparivano alcune idee: una bella ambientazione fatta di rovine, qualche ombra ben pensata o le ultime inquadrature lungo una linea ferroviaria, ma in un contesto confuso che faceva presto dimenticare questo film.
Col passare del tempo la percezione si è modificata. Come per Charles Laughton e il suo La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, 1955), il film diretto da Peter Lorre è un’opera unica: impressionante‚ cupa‚ che gioca con luci e ombre‚ un melodramma onirico. Il fatto che volesse resuscitare i fantasmi del passato è sicuramente la ragione principale del fallimento commerciale del film al momento della sua uscita. Ma anche il fatto che questo film sia oscuro e totalmente senza speranza non deve aver aiutato. Peter Lorre ne è l’incarnazione ideale, sfruttando alla perfezione il suo fisico ambiguo che può renderlo sia una vittima che un carnefice o addirittura entrambi allo stesso tempo. Un’opera notevole per la sua stranezza.
E così si arrivò a riconoscere che si trattava di una rarità unica, con una storia coerente e un finale girato magistralmente. Ammettendo comunque che la trama si perde un po’, che mescola la storia di un serial killer con la riflessione sulle colpe di coloro che collaborarono con il regime nazista e con il ricordo del tentato complotto contro Hitler. Con un epilogo terribilmente moralistico, laddove un finale più ambiguo sarebbe stato più interessante e avrebbe coinciso meglio con la situazione in Germania negli anni Cinquanta. Tuttavia, l’atmosfera estremamente cupa e la recitazione quasi espressionista di alcuni attori conferiscono un carattere singolare a questo film e lo salvano dalla banalità. Con la sua recitazione lenta (come se fosse schiacciato dal destino), i suoi occhi abbassati, la sua voce monotona, i suoi gesti minimalisti e disillusi, Lorre colpisce. L’influenza di Fritz Lang è evidente, ma lo stile di Lorre è più barocco: i contrasti sono molto marcati, la musica drammatizza e i primi piani numerosi. Una poesia morbosa che nella totale assenza – e faticosa per lo spettatore – di ottimismo lo accomuna ai film che Lang realizzerà tre o quattro anni dopo come, per esempio, L’alibi era perfetto (Beyond a Reasonable Doubt, 1956).
Esistono due testi imprescindibili sull’attore: Peter Lorre: Face Maker: Constructing Stardom and Performance in Hollywood and Europe (Berghahn Books, 2012), di Sarah Thomas, e soprattutto The Lost One: A Life of Peter Lorre (The University Press of Kentucky, 2012) di Stephen Youngkin. Finalmente, all’inizio del 2024, arriverà un’opera corale italiana a cura di Roberto Lasagna riempiendo una grave mancanza.
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