Mi trovo a Caulonia, in Calabria, quando Michelangelo Frammartino tiene quella che si definirebbe una lectio magistralis circa la poetica de ‘Il buco’, il suo terzo e più fortunato lungometraggio, da poco onorato del Gran Premio della Giuria a Venezia (2021). Nella medesima occasione, riesco a ottenere una copia de ‘Il dono’, risalente al 2003, opera prima e pressocché introvabile del regista.
‘Il dono’ esprime in maniera eccezionale il doppio valore delle opere prime degli autori talentuosi. Porta infatti con sé il corredo completo di quella che si capirà, col senno di poi, esserne la poetica più matura, ma al contempo possiede un’allure, per così dire, più selvatica, che le consegna una durezza persino tragica, pur nella compostezza di stile che attraversa tutto il suo cinema.
Il lungometraggio si svolge nella terra d’origine e di elezione poetica del regista, ovvero Caulonia, Comune della Locride calabrese. Qui, l’esile trama ci porta a seguire le orme di una giovanissima donna, toccata da un ritardo mentale, che si prostituisce tra gli abitanti del paese. Contestualmente, la videocamera spia alcuni sprazzi di vita quotidiana di un anziano contadino, solo e baraccato in un contesto profondamente rurale. Le appena accennate vicissitudini delle due figure si alternano a lunghi momenti a camera fissa dove Frammartino indugia là dove nessun regista privo di autorialità potrebbe mai indugiare. I soggetti prediletti dell’autore sono infatti le capre, i rottami avvinghiati alla vegetazione, in un unicum estetico e morale, le figure dei paesani reali, di cui si scorge a tratti l’imbarazzo, o l’ilarità -senza, tuttavia, che la tensione della finzione filmica sia deposta. E ancora, il paese di Caulonia: vicoli, muri, scale, gatti, brevi scorci animati, minuti tableaux di vita comune. Tecnicamente, le scene si compongono per lo più di piani-sequenza a campo lungo, dove, ugualmente, si registrano paesaggi, figure umane e animali. In alternativa, gli stessi soggetti sono ripresi dal regista attraverso piani medi e primi piani. Visioni distaccate dunque o, di converso, ravvicinate, che, per staticità e inquadratura, ricordano un’esposizione fotografica.
Sul versante audio, a conferma di uno stile che (apparentemente) non impone subordinazioni forti tra gli elementi della scena, constatiamo che gli scarsissimi dialoghi tra le figure umane e le voci della natura si equivalgono, sia nella tecnica di cattura del suono, sia -evidentemente- sul fronte della rilevanza scenica.
Pur nello sguardo a tratti etnografico dell’opera, dissentirei con quanti attribuiscono all’autore tendenze documentaristiche. Infatti, se è vero che il contesto prestato al film dà l’impressione di essere piegato appena alle esigenze registiche, il patto di finzione filmica si mantiene. Non solo, sul piano concettuale, mi pare che ‘Il Dono’ risponda ad esigenze di rappresentazione ben lontane da quelle di registrazione documentale più propriamente detta. Ed è, credo, in questa differenza che si sostanzia la sua poetica -nonché la magistrale padronanza degli strumenti di regia. Quello che potrebbe intendersi come uno sguardo paratattico sugli elementi di scena, si rivela come un approccio alla rappresentazione e, quindi, al mondo. Nelle inquadrature di Frammartino emerge una sensibilità per la vita come una sorta di indifferente commistione di soggetti animati e inanimati, umani e non umani, bucolici e degradati, intradiegetici ed extradiegetici.
L’autore ci dice, così, che fare regia significa collocarsi all’interno di un bilanciamento tra esigenze di controllo, a favore dell’intenzionalità registica, e una certa dose di aleatorietà o, per meglio dire, di contaminazione ex machina, degli elementi contestuali -del set propriamente detto- di cui si accetta un qualche grado di porosità. Ma l’autore ci dice anche dell’altro, ovvero che il contesto di cui si vuole dare rappresentazione è, di per sé, un set, vale a dire che è un microcosmo significante dotato di un valore, letteralmente, cinematografico. È questo portato di riflessione che, mi pare, consegni a Frammartino un’aura di autorialità di raro spessore. Nei suoi film troviamo che il verso delle capre e i dialoghi degli uomini hanno il medesimo peso, che un rottame, a lungo insediato nel paesaggio, diventa quel paesaggio, che i volti eternamente anziani di paesani collocati in una delle zone a maggior detrimento socioeconomico d’Europa, sono luoghi di esplorazione, figure morali (o contro-morali), ben lungi da qualsivoglia nota folk o anche minimamente nostalgica. Fortunatamente, infatti, lo stile di Frammartino possiede un’asciuttezza rigorosissima e si sottrae efficacemente ai limiti di quella diffusa ‘poetica della marginalità’ che facilmente (s)cade nel moralismo.
Coerentemente, il messaggio de ‘Il Dono’ si pone aperto agli occhi dello spettatore. Dal primo fotogramma alla scarna durezza dell’ultima scena, a noi è dato di interpretare dove il dono si celi e, con buona probabilità, tutti i luoghi dove pensiamo di intuirlo sono ugualmente validi. Il dono è il darsi del corpo della giovane prostituta ai paesani, ma anche nell’offerta del pasto da parte dell’anziano contadino. Ancora, forse, il dono è da leggersi ambiguamente, come il tocco della ragazza, verso cui indagano le vecchie parenti in diverse sequenze di lettura del malocchio. Ugualmente, il film rievoca il concetto attraverso numerosi riferimenti minori, per lo più giocati sulla gestualità silente delle figure umane e sui loro brevi scambi.
Mi pare che, in termini generali, ‘Il Dono’ si collochi, per stile e contenuti, esattamente agli antipodi della cinematografia mainstream. Non a caso, nelle recensioni che trattano della filmografia di Frammartino, non è infrequente il riferimento alla scarsa commercializzazione della sua opera. In questo aspetto, credo, consista la riprova del suo valore intrinseco di artista indipendente, in primis. Egli, infatti, mi pare non abbia mai smesso di rispondere alle esigenze della propria vocazione con estrema sincerità. E questo, al di là di tutto e quasi paradossalmente, è proprio ciò che è infine riuscito ad affermarlo sulla scena internazionale. Certo, nella fatica di finanziare opere di valore vi è un rammarico, ma è forse anche l’ardua declinabilità commerciale che misura, di Michelangelo Frammartino, il dono di un’estrema libertà poetica.
Michelangelo Frammartino nasce a Milano nel 1968 da genitori calabresi originari di Caulonia. Studia architettura al Politecnico di Milano e poi cinema alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti. Esordisce come autore nel mondo della videoarte e come regista di diversi cortometraggi. Grazie a un premio in denaro ottenuto al Bellario Film Festival, nel 2003 finanzia il suo primo lungometraggio ‘Il dono’, cui seguono ‘Le quattro volte’ (2010) e ‘Il buco’ (2021) che gli vale il Premio speciale della giuria a Venezia. Insegna regia e videoarte in diverse università d’Italia.
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