Ricominciare da un suicidio rivitalizzando paradossalmente e nella maniera più inaspettatamete tragica un gruppo di amici che da anni erano stati “congelati” dal Grande Freddo dell’incomunicabilità e degli egoismi personali. Inizio dirompente la scena al funerale di Alex, interpretato da un altro futuro divo come Kevin Constner anche se nel facile ruolo del defunto, dialoghi serrati e mai banali fra un affiatato cast di futuri attori di successo – da Kevin Kline a Glenn Close, da William Hurt a Jeff Goldblum – e una colonna sonora a dir poco strepitosa sono fra gli elementi chiave del successo de Il Grande Freddo uscito quarant’anni fa nel lontano 1983 e trionfo di pubblico e critica.
La pellicola divenne un “must” nei dorati anni Ottanta americani che si confrontavano con le ferite della guerra del Vietnam sprofondando nell’oblio di questa scialba seconda decade dei Duemila. Una trama esistenziale ma in maniera sobria, riflessiva senza retoriche e intellettualismi inutili diretta magistralmente dal poco conosciuto Lawrence Kasdan, che il prossimo 14 gennaio compierà 75 anni e che realizzò altri lavori notevoli, al fianco degli amici Hurt e Kline: con il primo la strampalata commedia erotica Brivido caldo due anni prima e il drammatico e molto serio Turista per caso mentre col secondo l’esilarante black comedy Ti amerò fino ad ammazzarti. Ma il vero capolavoro del regista resta questo affresco generazionale in cui il misterioso suicidio dell’amico Alex, che si taglia le vene terminando così i suoi giorni, riesce a riunire questa comitiva di amici che si recano dopo le esequie a casa di una coppia del gruppo, impersonata da un serio Kevin Kline che successivamente negli anni sfodererà una grande verve e senso dell’umorismo come nella strepitosa commedia inglese Un pesce di nome Wanda e da Glenn Close esperta in ruoli tesi e drammatici.
Trampolino di lancio di un cast di grandi futuri grandi attori, ritratto senza sbavature anche se con qualche lentezza di troppo di una serie di trentenni infelici ma molto in gamba in geometrico equilibrio fra momenti toccanti e fasi più leggere, ne emerge un coro di profili umani accattivanti che ha per protagonista l’altruista coppia Harold e Sara che ospita una squadra di squinternati. Fra questi da ricordare il giornalista scandalistico Michael, interpretato dall’attore ebreo americano di origini russe Jeff Goldblum, lo psicologo Nick ferito da Vietnam e reduce dalla dipendenza dalle droghe (un efficace William Hurt) e Tom Berenger nella parte dell’attore divorziato Sam che pochi anni dopo sarebbe esploso come protagonista del grandioso Platoon, uno dei migliori film sul Vietnam.
Grandi interpreti diventati star e altri pur bravi rimasti “a secco”, i destini di ex compagni di scuola che poi si ritrovano anche se nel modo peggiore, la domanda su come eravamo e cosa siamo diventati e il senso doloroso delle cosiddette “rimpatriate” in una pellicola talmente forte che avrebbe ispirato film importanti come Compagni di Scuola del commediante più intimista del cinema italiano, Carlo Verdone, e Marrakech Express di un autore versatile come Gabriele Salvatores, ben più famoso per il suo Mediterraneo. Film profondo, intenso e coinvolgente, felice eccezione della difficile e mai scontata unione fra successo commerciale e valore intrinseco che nel cinema odierno sembra un miracolo e una sfida sempre aperta per ogni bel film che si rispetti. Complice della riuscita anche la colonna sonora con brani viscerali e emozionanti come I heard through the grapevine di Marvin Gaye rifatta anche dai Creedence Clearwater Revival, una perla non così nota dei Rolling Stones come You can’t always get what you want e la vivace Feelin’ alright di Joe Cocker che accompagnano le varie scene di questo inossidabile cult movie ancora oggi molto attuale sebbene un po’ datato.
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