New York.Il cadavere mutilato di una giovane donna viene ritrovato sulle rive dell’Hudson. Quindi una giovane donna e poi un’attrice di peep show vengono orribilmente assassinate. Il tenente Fred Williams (Jack Hedley) è convinto di avere a che fare con un serial killer. Conduce le indagini con l’aiuto dello psichiatra Paul Devis (Paolo Malco), ma l’assassino è sempre un passo avanti, provocando anche con telefonate durante le quali imita la voce di Donald Duck…

Dopo Quella villa accanto al cimitero (1981), Lucio Fulci sbiadisce gradualmente il suo talento horror. Si avverte un calo di ispirazione, un’immaginazione che sta avvizzendo o almeno che si ripiega su alcune formule shock che ha già ampiamente utilizzato in passato. La trasformazione della produzione horror negli anni ’80, in particolare del gore, gli fa perdere quella sorta di posto speciale che aveva occupato fino ad allora. Un declino sicuramente dovuto anche alla fine della sua lunga e fertile collaborazione con il direttore della fotografia Sergio Salvati, avvenuta appunto dopo Quella villa accanto al cimitero, e seguita dal litigio con il suo fedele sceneggiatore Dardano Sacchetti durante le riprese di Manhattan Baby (1982), girato praticamente in contemporanea con Lo squartatore di New York (1982), che è l’ultima significativa collaborazione con Sacchetti – si rincontreranno vagamente nel risibile I guerrieri dell’anno 2072 (1984) – che è anche l’ultimo film degno di nota di Fulci. A margine: la produzione pretese che Sacchetti revisionasse la sceneggiatura.

Lo squartatore di New York abbandona le sponde della fantasia onirica e morbosa per dedicarsi al realismo più crudo. Fulci usa il sangue non più per condurre lo spettatore in un mondo da incubo ma per cercare di fargli sentire l’orrore di un male molto palpabile, quello di questi crimini abietti che alimentano le colonne in cronaca. Molto più del sanguinoso delirio di …e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà (1981), Lo squartatore di New York si rivela a volte quasi insopportabile e le sue scene di omicidio sono tra le più inquietanti mai girate. Aggressivo, crudo, il film cerca una rappresentazione esacerbata della violenza e un po’ spiace che Fulci non utilizzi più le sue visioni cruente per allestire questa poesia macabra che aveva fatto assurgere alle vette del genere, per scivolare sull’onda di slasher urbani crudi e scioccanti – come per esempio Maniac (1980), di William Lustig, di talento certo, ma non più quell’inclinazione che lo rendeva così unico nel panorama del cinema horror.

Fulci, per convinzione o forse per stanchezza, riprende alcuni suoi esordi nel filone thriller, Una sull’altra (1969) e Una lucertola con la pelle di donna (1971), con massicce iniezioni del suo stile gore. Ecco, quindi, che troviamo una trama vagamente gialla, una propensione per le spiegazioni psicoanalitiche delle motivazioni criminali e una regia che gioca su colori saturi e un continuo andirivieni tra scene esplicative filmate in modo piatto, quasi televisivo, e altre più astratte. Questo impianto innestato nella consueta capacità del regista di produrre immagini scioccanti che imprimono un segno indelebile sulla retina, come un capezzolo o un occhio tagliato in due da una lama di rasoio. Lo squartatore di New York si pone così come una sintesi accelerata della carriera di Fulci, con una novità in più: una ricerca di realismo che se era già presente in molte sue produzioni (si pensi all’ultima parte di Una sull’altra con una lunga e attenta descrizione della camera a gas) qui è il fulcro del progetto cinematografico.

Risulta chiaro che Fulci è attratto da opere come L’assassino di Rillington Place n. 10 (10 Rillington Place, 1971), di Richard Fleischer, o Frenzy (id., 1972) di Alfred Hitchcock, al quale non smette mai di fare riferimento e di rendere omaggio, ritenendolo il suo “maestro”. Ma l’impostazione culturale del regista (che significa tutta la sua variegata filmografia) gli impedisce di prendere esattamente questa direzione, non si accontenta di una storia secca e dettagliata ma imbastisce una trama complicata nella tradizione del thriller all’italiana con tutta la sua panoplia di colpi di scena e falsi colpevoli. Allo stesso modo, man mano che la storia avanza, si lascia trasportare dal suo gusto per l’audacia formale, anche se mantiene l’impostazione di realismo nel modo in cui descrive New York, il fatto di girare nei luoghi stessi dove si svolge la trama conferendogli a volte un aspetto quasi documentaristico (a parte, ovviamente, gli interni negli studi De Paolis di Roma). La prima sceneggiatura doveva essere ambientata a Boston – un riferimento allo Lo Strangolatore di Boston (The Boston Strangler, 1968), sempre di Richard Fleischer? -, ma New York si adatta meglio a Fulci, la sua atmosfera e la sua architettura (ben fotografata dall’ottimo Luigi Kuveiller, rientrato in pista dopo Una lucertola con la pelle di donna). Le riprese attraversano principalmente il South Bronx, con le sue zone abbandonate e le sue strade illuminate dalle facciate dei cinema porno e dai peep show, e in questo Fulci emula ancora una volta William Lustig.

Il film si apre sulla baia di New York, in un’inquadratura che ricorda il finale di Zombie 2 (1979). La cinepresa volteggia in questo spazio iconico e turistico (il ponte di Brooklyn), per fermarsi su un vecchio e il suo cane che passeggiano su un terreno abbandonato. Si passa dalla quotidianità all’orrore quando il cane torna con in bocca una mano in decomposizione. Per tutta la prima parte del film, quando iniziano le indagini, Fulci non smette mai di mescolare l’ordinario all’orrore. Lo stanco patologo forense che ha già assistito a centinaia di delitti, spesso molto più orribili, o Williams che elenca il numero di omicidi giornalieri a New York (nove di cui sei donne) evocano fin dall’inizio una città posta sotto il giogo delle pulsioni e della morte. Lo stesso Fulci compare nei panni del capo della polizia – e come attore è indiscutibilmente scarso – che arriva a suggerire a Williams di non parlare di serial killer, per non gettare nel panico la popolazione. Ruolo ironico, Fulci mostra in questo film l’onnipresenza del male e della morte con un sacco di scene cruente riprese con un taglio realistico che ne aumenta di gran lunga l’efficacia.

Come è stato detto, Fulci non può abbandonarsi del tutto al realismo e qui ritroviamo il suo gusto per le angolazioni bizzarre, per l’uso espressionista delle ambientazioni e delle luci, per i colori che invadono lo schermo e che a volte sforano improvvisamente nel barocco. Il film risulta un po’ schizofrenico, tra il desiderio di realismo crudo e la naturale tendenza del cineasta a muoversi verso l’astrazione, il simbolismo, la poesia morbosa (dove dà il meglio di sé). Fulci è comunque un artista combattuto. Tra riflessione intellettuale e voglia di filmare i corpi. Tra idee e realtà. Tra la sua moralità cattolica (e a volte puritana) e la sua fascinazione per il sesso e la violenza. Lo squartatore di New York è particolarmente rivelatore di queste tensioni. La musica è firmata dal vecchio professionista Francesco de Masi che unisce blaxploitation, groove e synth gobliniani in accostamenti che si rivelano talvolta quasi sperimentali, dissonanti, funky.

Lo Squartatore di New York è un film che rappresenta il sesso in modo molto crudo, quasi frontale, ma che allo stesso tempo avanza un discorso critico sulla sua mercificazione, anche morale, a fronte di una liberazione dei costumi che sembra aver oltrepassato il limite per Fulci. Nel primo omicidio, la vittima, Rosie, parla all’assassino rivolgendosi alla camera (quindi allo spettatore nella sua visione soggettiva). Fulci ci associa direttamente al serial killer, tornando però ad una visione esterna quando viene commesso il sanguinoso omicidio. Ma questo movimento, anche furtivo, è come un contratto che ci lega alla pulsione omicida dell’assassino, alla sua fantasia voyeuristica. Una classica modalità da thriller all’italiana che Fulci riutilizza occasionalmente nel film, in particolare quando l’assassino si reca nei quartieri a luci rosse, passa davanti alle prostitute, ai manifesti XXX e torna per assistere a uno spettacolo dal vivo. Nel thriller all’italiana il processo è spesso utilizzato a fini di suspense, per mostrare ad esempio l’assassino che si avvicina alla sua vittima inconsapevole. Qui il principio è più moralistico, Fulci non cerca di provocare paura in queste poche sequenze ma piuttosto di metterci nei panni del voyeur, del peccatore e si torna a una eticità cattolica. Allo stesso tempo, questo o quel personaggio ripete costantemente che l’assassino sa tutto, vede tutto. Il male che il film descrive è presente a tutti i livelli: nello spettatore, nel regista, nella realtà di New York, nella finzione. Il male è ovunque, nella vita così come nella carne stessa del cinema.

Ovunque c’è sesso e nudità. Fin dall’inizio, quando le indagini sono appena iniziate, i dialoghi tra l’ispettore e la padrona di casa della prima vittima continuano a ruotare attorno alla libertà sessuale mostrata dalla vittima e al suo corpo orribilmente maltrattato.  Successivamente vediamo Williams, che si rivela una figura autoritaria, a letto con una prostituta. Poi c’è il professor Davis che compra le riviste porno gay o le bizzarrie sadomasochiste di Jane Lodge (Alexandra Delli Colli). Scopriamo il personaggio di Jane durante uno spettacolo dal vivo in cui si emoziona registrando sul suo magnetofono il suono dell’amplesso della coppia sul palco. La registrazione viene poi consegnata al marito, che immaginiamo impotente, che a sua volta si eccita ascoltando la cassetta. È la registrazione voyeuristica dell’atto sessuale che attiva la libido della coppia e non l’atto in sé, come il porno che si basa sull’eccitazione sessuale ritardata e slegata dalla presenza dei corpi. La registrazione e la riproduzione sono il cinema, che ritroviamo nell’incubo di Faye (Almanta Keller) dopo l’aggressione. La vediamo sola, ferita, addormentarsi in una stanza vuota mentre sullo schermo viene proiettato un film. Quella che segue è una delle sequenze più sanguinose del film, quando immagina di essere massacrata dall’assassino e la camera arriva al punto di collocarsi nella sua gola squarciata. Ne Lo Squartatore di New York il cinema è rappresentato come luogo delli violenza, del sesso, degli istinti e delle pulsioni. Fulci filma numerose facciate di sale cinematografiche con manifesti pubblicitari di film horror o erotico-pornografici. Traspare la tendenza moralizzatrice del cineasta, come se si abbandonasse al mea-culpa di un cattolico pentito attratto suo malgrado dalla rappresentazione del sesso e della violenza, essendo Lo squartatore di New York uno dei film in cui si spinge più lontano in queste due direzioni. Fulci scivola dentro qualche allusione, quasi subliminale, alla religione: il vinile di Jesus Christ Superstar appoggiato su un fianco in un angolo del set; Williams che ironicamente suggerisce al suo leader una chiesa come luogo dove chiacchierare tranquillamente o anche quando si appella a Gesù Cristo e il suo accolito gli chiede cosa ha detto e cosa non osa ripetere: nella migliore delle ipotesi Dio è stato parodiato, deriso, nella peggiore ha abbandonato questo mondo.

C’è spesso un elemento personale, a volte autobiografico, nei film di Fulci. Naturalmente è presente anche qui: fascinazione e disgusto per il sesso e la violenza. Anche se gli omicidi sono filmati con rara efficacia, estremamente coraggiosi, dotati della stessa durezza del suo capolavoro Non si sevizia un paperino (1972). Indubbiamente Lo squartatore di New York non è esente da difetti, in termini di trama e di recitazione. La storia si perde nella complessità per giungere a un finale non del tutto “telefonico” ma che si fa presto a intuire.

Le dispersioni sono fin troppo evidenti: quando Mickey Scellenda (Howard Ross), a cui mancano due dita e che, durante una scena, avanza laconico in una metropolitana vuota verso colei che diventerà una prossima vittima, lo spettatore non può ingannarsi. Allo stesso modo quando incontra il personaggio di Jane (Alexandra Delli Colli), una ninfomane cronica che permette a Fulci, oltre a provare a portarci fuori strada (senza riuscirci), di offrirci alcuni momenti molto carichi di torbido erotismo. Così come quando descrive alcuni rappresentanti di quella borghesia deviata spettatrice dei peep show: una visione che, in fondo, non è affatto reazionaria dato che suggerisce che non è tra i devianti ma piuttosto tra le persone apparentemente equilibrate che bisogna cercare il colpevole!

Lo stesso vale per Paolo Malco che interpreta (debolmente) uno psichiatra omosessuale scacchista compulsivo: se la sua diversità viene evidenziata e allo stesso tempo portata alla luce da Fulci, non viene in alcun modo criticata. Il miglior attore del film rimane senza dubbio Jack Hedley, nei panni di un cinico ispettore di polizia completamente disilluso, sull’orlo della depressione, che cerca tanto se stesso quanto l’assassino. Imbarazza invece l’inconsistente performance di Andrea Occhipinti, calcolando che il suo personaggio è tutt’altro che banale anche se rimane troppo poco esplorato in relazione al contesto e ai codici del giallo, genere da cui il film, tuttavia, rifugge per la maggior parte del tempo, propendendo verso lo psycho-killer urbano, e appunto il puro slasher.

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