Tra gli irregolari che affollano la storia della letteratura di tutti i tempi e in particolare quella del Novecento, Joseph Roth occupa sicuramente un posto d’onore. Nonostante una durata relativamente breve – Roth nacque nel 1894 e morì nel 1939 – la sua vita fu infatti talmente fitta di avvenimenti da riempire comodamente per tre o quattro esistenze. Come se non bastasse, forse ereditando un talento di famiglia per la mistificazione (giusto per fare un esempio: per non turbare l’infanzia del futuro scrittore i famigliari preferirono fargli credere che il padre fosse morto impiccato anziché rivelargli il suo ricovero in una clinica per malati di mente), lo stesso Roth alterò la storia delle sue origini. Di lui sappiamo con certezza che nacque in una famiglia di ambiente chassidico e estrazione borghese di Leopoli, in Galizia, alle estreme propaggini dell’Impero austro-ungarico. Girò l’Europa in lungo e in largo, vivendo nelle grandi capitali Vienna, Berlino, Parigi. Visse in prima persona avvenimenti epocali come la Prima Guerra Mondiale, il disgregarsi degli Imperi Centrali (viene spesso definito cantore della finis Austriae) e l’avvento del nazismo. Personaggio controverso, fu socialista e monarchico, dapprima pacifista e poi volontario al fronte, a seconda delle circostanze si autodefinì cattolico o ebreo. Giornalista di successo ma anche perseguitato da pesanti disgrazie, oltre al padre la follia colpì anche la prima moglie Friedl che poi cadde vittima del programma di eutanasia dei nazisti. Una tendenza autolesionistica lo portò a collassare in preda al delirium tremens dell’alcolismo al café Tournon di Parigi.
Stefan Zweig e Joseph Roth
Tradotto in Italia già ai tempi del Fascismo, praticamente in contemporanea con la pubblicazione delle sue opere in lingua originale, Roth visse in seguito nel nostro Paese una sorta di oblio fino agli inizi degli anni Settanta. Universalmente è apprezzato per romanzi come La cripta dei Cappuccini, La milleduesima notte, Fuga senza fine, Giobbe e soprattutto per La marcia di Radetzky, considerato il suo capolavoro. Chi scrive ha una predilezione per La ribellione, un romanzo breve su cui vale la pena soffermarsi. Uscito a puntate nel corso del 1924 su Vorwärts, fino al 1933 quotidiano del Partito socialdemocratico tedesco (SPD), il romanzo è uno degli scritti di Roth più aspri: le celebri atmosfere desolate sono rese con una tale capacità di osservazione da far quasi sentire al lettore il rumore delle strade e l’odore delle case del primo dopoguerra.
Il protagonista Andreas Pum è un reduce mutilato che si considera un uomo superiore e per questo osserva con disprezzo i suoi compagni durante le giornate di convalescenza. Uscito dall’ospedale con la licenza di suonare l’organetto per le strade raccogliendo l’elemosina, Andreas —soddisfatto ed orgoglioso di sé — comincia la vita che gli è stata concessa: con il favore della sorte e del Dio in cui crede, si procura moglie e stabilità. Il destino è però in agguato e la sua esistenza ordinata e legittima viene stravolta da un banale incidente che vede l’autorità in cui aveva riposto cieca fiducia rivolgersi contro di lui. Andreas rimane impigliato tra gli ingranaggi della giustizia e viene recluso. Con la sicurezza del grande narratore, Roth mette in scena una disgrazia dopo l’altra (come la vita!) e ci mostra la moglie di Pum cedere alle lusinghe di un corteggiatore e abbandonare il marito. Nel buio della cella inizia così la ribellione di Andreas Pum, solo, abbandonato e tradito da tutto quanto rappresenta l’ordine a cui ha sempre obbedito e creduto.
C’è chi ha visto ne La ribellione una critica sociale, una testimonianza dell’incapacità delle autorità di quel periodo storico di mantenere il consenso anche del più fedele tra gli uomini. Tesi condivisibile, anche se personalmente ritengo che uno dei temi principali sia soprattutto l’irrisolta dialettica tra individuo e società. Sono due i riferimenti letterari principali di Roth, che si dimostra davvero un epigono di Kafka nel descrivere come il povero Pum venga annientato dagli stessi ingranaggi che impediscono a Josef K. di salvarsi (e infilzano letteralmente l’Ufficiale del racconto Nella colonia penale). Un indizio sull’altro padre nobile si trova invece nel titolo di questo romanzo breve, lo stesso del capitolo de I fratelli Karamazov che precede il famosissimo Il Grande Inquisitore. La disputa sulla natura dell’uomo e sulla libertà, il tema de La ribellione in Dostoevskij, è a ben vedere centrale anche nel libro di Roth. E anche l’invettiva finale del protagonista contro Dio – “la Tua grazia non la voglio […] voglio andare all’inferno!” – è dostoevskiana nella sua eco e nell’andare incontro consapevolmente al compimento di un destino che trasforma una ribellione in una perdizione totale.
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