Regan, una ragazza di 13 anni, vive con sua madre, Chris MacNeil, un’attrice che, tra una ripresa e l’altra, cerca di conciliare vita professionale e familiare. La donna scopre che sua figlia è vittima di problemi di sonno, di agitazione frequente e che sta diventando sempre più violenta nei confronti di chi la circonda. Preoccupata, consulta medici, neurologi e altri esperti che prima eseguono due interventi molto dolorosi, al termine dei quali viene fornita una prima spiegazione senza che Chris si senta rassicurata o convinta. Allo stesso tempo, le condizioni di sua figlia sono peggiorate. Disperata, a contatto con medici che sembrano non capirla più, decide come ultima risorsa di rivolgersi a un esorcista, padre Damien Karras.

Incoronato dal grande successo di pubblico e di critica di French Connection (1971) che vinse due Oscar, William Friedkin un anno dopo iniziò a realizzare un film che avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia del cinema. Tratto dal romanzo di William Peter Blatty, che si ispirava a un articolo giornalistico del 1949 adattato per trasformarsi in una storia terrificante, L’esorcista (The Exorcist, 1974) ha imposto definitamente il regista che realizzerà il suo secondo e ultimo trionfo al botteghino. Fin dall’inizio della sua carriera, Friedkin si è distinto come un artista affascinato dalla dualità e dalla creazione di atmosfere sull’orlo della crisi in un approccio del quale si vanterà sempre di aver dato un’immagine moderna. L’Esorcista non fa eccezione a questa regola. Ma Friedkin ha anche espresso, spesso con durezza, il suo lato contraddittorio, cercando di imporre le proprie idee ai suoi sceneggiatori o attori, contestando alcune idee di William Peter Blatty e della sua sceneggiatura, così come si è opposto ad alcune scelte di casting (Jane Fonda avrebbe dovuto interpretare il ruolo che il regista caparbiamente volle affidare a Ellen Burstyn, contro il volere della produzione).

La storia della possessione che sta alla base di L’esorcista rappresenta per lui un’opportunità per evidenziare il tema chiave del suo universo registico: l’eterna lotta tra il Bene e il Male. Letteralmente affascinato da questo tema, sviluppa questa idea ossessiva utilizzando spesso riprese di taglio documentaristico per ottenere un maggiore realismo se non addirittura iperrealismo. Vuole che lo spettacolo sia il più credibile e spaventoso possibile, afferrando lo spettatore per le viscere, niente di più, niente di meno. Macchina da presa a mano, luce naturale o illuminazione minimalista, rigore della regia, grana della pellicola, ecc… Il regista si affida alla tecnica documentaristica che risponde a esigenze spesso economiche alle quali adempie alla perfezione. L’orrore qui è clinico e agghiacciante. Singolarmente un approccio che ha prodotto classici del terrore in tutto il decennio Settanta: L’ultima casa a sinistra (The Last House on the Left, 1972), Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, 1974), Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977) e molti altri. Un decennio d’oro del quale, a metà degli anni Ottanta, John McNaughton riscoprirà lo spirito con Henry, pioggia di sangue (Henry: Portrait of a Serial Killer, 1986), adottando lo stesso approccio documentaristico.

A distanza di 50 anni L’Esorcista, mantiene intatta la sua modernità, dotato com’è di un grande know-how in termini di fotografia e suono, gestione degli effetti speciali e mixaggio. Non per niente il film vinse l’Oscar nel 1973 per questa parte tecnica. In un altro registro, quello visivo, la fotografia regala un’atmosfera da incubo con le sue numerose riprese immerse nell’oscurità. Ciò gli permette talvolta di essere eccessivo, nel senso che il cineasta desta il disagio in scene particolarmente inquietanti per la loro violenza morale, come il primo esame medico a cui è sottoposta Regan con il suono stridulo delle macchine. Il film mostra anche contrasti disperati, una grande freddezza, l’assenza di colori vivaci che restituiscono una quotidianità monotona e triste. Una coerenza inappuntabile, un’alchimia tra sostanza e forma dove le due visioni si fondono alla perfezione e che provoca un’impressione di pieno e di soffocamento. Le scene in interni sono molto più numerose di quelle in esterni e per una buona ragione: il Male ha messo radici dentro un essere ed è in esso che si sviluppa. Gli stakeholder esterni dovranno abituarsi in un modo o nell’altro, pertanto affrontarlo per superarlo. È qui che entra in gioco il tocco di Friedkin. Mostra gli specialisti che cercano di trovare le vere origini del problema di Regan e fanno sempre affidamento sulla ragione scientifica: “Crediamo solo a ciò che vediamo”. I segni di lividi fisici che appaiono sul corpo di Regan non sono da prendere alla leggera e non vengono ignorati, ma si cerca una spiegazione ragionevole per il violento comportamento della ragazza.
Friedkin filma neurologi che ricorrono all’esorcismo come ultima risorsa, un vecchio metodo criticato anche in ambito teologico. Il confronto tra il Profano e il Sacro mette in evidenza i dubbi di ciascuno, e la religione è vista come l’ultimo baluardo contro il Male, anche se vedremo più avanti, è rappresentata da due uomini di Chiesa contrapposti tra loro, per età, convinzioni personali e che, come se non bastasse per i credenti, continuano a dubitare. Tuttavia, Damien Karras (Jason Miller), un uomo solo e devastato dalla malattia mentale di sua madre (che dà origine a un incubo tagliato su un’inquadratura subliminale del Maligno che emerge dall’ingresso della metropolitana) cerca ancora la Fede, la sua Fede, e officia le sue cerimonie domenicali. Max Von Sydow, padre Merrin, dal canto suo, appare con lineamenti volutamente marcati e invecchiati.

Da dove proviene l’evidente forza di questo film? Dalla sua gestione degli effetti che prevede lunghi momenti di tensione sospendendo improvvisamente la monotonia delle situazioni con un effetto shock. Non sangue, non sbudellamenti ravvicinati, ma un dosaggio sottile ed equilibrato destinato a tenere alta la suspense – non si sa mai cosa succederà – e la capacità di immersione in un orrore quotidiano, descritto come un fatto del tutto plausibile (l’evoluzione psicologica dei personaggi, l’andirivieni incessante dei preti, dell’ispettore di Polizia, i rumori e i gemiti di Regan che si rigira nel letto, ecc.). Alla fine si trema e ci si mette nei panni di questa madre, chiedendosi quale orrore colpirà ancora. Per illustrare ciò, si può citare la terribile sequenza del crocifisso che la stessa Regan si infila nella vagina urlando ‘Lascia che Gesù mi scopi! Lascia che Gesù mi scopi!’, una scena spettacolare se mai ce n’è stata una, ma per niente gratuita e ancora efficace per gli effetti speciali compresa quella testa che gira su sé stessa prima di declamare con un abominevole sorriso sulle sue labbra: ‘Sai cosa ha fatto a tua figlia stronza?’.

Effetti e scene scioccanti si ripetono verso la fine del film. Si vede questa stessa bambina sollevarsi sopra il letto con gli occhi che ruotano all’indietro, stimmate lungo le gambe. Ciò vale anche nel finale, quando il personaggio di Karras, fuori di sé, si precipita verso Regan e la scaraventa a terra mentre urla al Diavolo di uscire dal suo corpo, sono le immagini più sorprendenti del film. Tante scene da antologia, che restano nella memoria, ma che pongono anche una domanda. Nel finale Friedkin mostra in un prete posseduto a sua volta l’unica alternativa, anzi l’unica soluzione per sradicare il Demone interiore. Steso a terra e quasi strangolata Regan, il Male viene poi trasmesso da una persona all’altra in un istante di sconvolgimento fisico e mentale. Friedkin mostra che il Male si trasmette di corpo in corpo attraverso il pensiero e i gesti, mettendo da parte il precedente realismo di centodieci minuti di film; oppure pensa che il Male si trasmetta come una malattia, e che l’unico modo per salvare Regan deve sacrificare un uomo anch’egli contaminato? L’immagine di padre Karras che quasi cade all’indietro prima di rialzarsi e gettarsi dalla finestra è un’immagine più fantastica che realistica, ma in verità, date le circostanze che hanno portato alla sua morte, l’apparente contraddizione non è così grave. Il commento musicale aggiunto nelle ultime immagini crea un’atmosfera totalmente gelida. Friedkin, dopo le riprese, conserverà l’immagine di un regista tirannico che non esita a maltrattare i suoi attori pur di ottenere soddisfazione. Ellen Burstyn è rimasta gravemente ferita al basso bacino senza batter ciglio, mentre sparava colpi o squillava il telefono per catturare le emozioni sui volti. Un metodo poco ortodosso che ha avuto il suo effetto.

Nonostante il film sia un successo, possiamo muovere alcune critiche a L’esorcista. È lento – questa può essere una qualità così come un difetto – e la noia può insorgere se si aspetta una narrazione e un ritmo più sostenuti. I dialoghi sono molto numerosi, a volte troppo esplicativi e talvolta logorroici, anche se il film si velocizza nell’ultima mezz’ora. Troppo lungo? Certamente. Resta il fatto che il film è gestito con maestria, un cult indiscutibile anche se la visione con il senno di poi permette di sottolinearne le oscillazioni, senza che diventi improvvisamente scadente. Un successo horror mondiale, L’Esorcista sarà l’ultimo film a garantire a William Friedkin popolarità e influenza. Lo straordinario Il salario della paura (Sorcerer, 1977) sarà un grande flop. Linda Blair, invece, si identificherà in questo ruolo senza riuscire a liberarsene, mentre Ellen Burstyn, più che convincente, continuerà una carriera piuttosto brillante. L’Esorcista è soffocante, non distilla umorismo, nemmeno accennato. Cerca nella quotidianità il motivo degli orrori più viscerali. Il demone ha un volto, e qui è quello di una bambina. Difficile fare qualcosa di più allegorico e ardito di questa immagine. Così si costruiscono i miti del Fantastico (con la sua dose di storie disastrose – morti sul set del film, condizioni difficili di lavorazione in una stanza fredda come quella di Regan, come si evince dal vapore che esce dalle bocche degli attori) che un tempo ha popolato gli incubi di adolescenti bisognosi di emozioni forti con questa storia tanto terribile quanto puramente cinematografica.

Tuttavia, in un recente intervento in occasione dell’ultima edizione Blu-ray, il leggendario e controverso cineasta americano dà le chiavi della sua traumatica opera.
Quando L’Esorcista uscì il 25 dicembre 1973 negli Stati Uniti, la data sembrò una provocazione. Sulla possessione demoniaca di una bambina a Washington, il film profuma di zolfo a Natale. Parliamo di svenimenti nelle sale, di vomito (con i sacchetti di carta distribuiti agli spettatori) e perfino di infarti! Il film fece notizia. Il suo regista, William Friedkin, era al settimo cielo. Dopo aver inventato il thriller urbano con French Connection nel 1971 (Oscar per la migliore regia 1972), reinventava il film horror. Il film avrà sequel e serie TV, e sarà distribuito ovunque.
«L’Esorcista parla di fede», afferma Friedkin. “Believer” (credente), il cineasta aveva in mente questo argomento quando si era imbattuto nel romanzo di William Peter Blatty, best-seller del 1971 (13 milioni copie in un anno). La Warner gli dà carta bianca. La sua visione diverge da quella dello scrittore, ma vanno d’accordo. Blatty è un coproduttore del film.

L’aneddoto è noto, Friedkin spara diversi colpi di rivoltella sul set per provocare la reazione dei suoi attori. Lo avevano già fatto altri, come John Huston. Ciò avvantaggia la leggenda. Schiaffeggia un prete durante una scena per ottenere ciò che vuole… La stampa si commuove nel vedere un’attrice così giovane, Linda Blair, subire gli oltraggi che si vedono sullo schermo. A quattordici anni, l’attrice recita da quando ne aveva otto e dice di essersi divertita sul set.

Friedkin ha un cast d’oro: Max von Sydow, Ellen Burstyn, Lee.J. Cobb, e un giovane attore nel ruolo centrale di Padre Karras, lo sconosciuto e straordinario Jason Miller. La visione di Friedkin per il suo film esplode nella sua disputa con Blatty sull’introduzione del film in Iraq. Il romanziere vuole rimuoverlo, il regista è deciso a continuare. Anche su altri punti del suo adattamento ha ragione. È il nono film più visto di tutti i tempi negli Stati Uniti, con un totale di oltre 110 milioni di spettatori. Un fenomeno.

La presentazione di Friedkin assume tutto il suo significato quando affronta punti più inaspettati, come il suo approccio pittorico e musicale al film. Il suo rapporto con Caravaggio e Magritte, da cui trasse ispirazione per l’inquadratura emblematica del film che ne sarebbe diventata la locandina.

Friedkin ha anche un legame speciale con la musica. Avendo ordinato una partitura al famoso Lalo Schifrin, la rifiuta, il che porta alla rottura definitiva tra i due artisti. Schifrin riutilizzerà la sua composizione per Amityville Horror (The Amityville Horror, 1979) .
Di contro il regista scopre il primo album di Mike Oldfield, Tubular Bells e lo usa come tema principale: il titolo è un successo e lancia la giovanissima etichetta Virgin che farà fortuna.

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