Dici Il postino e subito, all’istante, ti appare nei pensieri la stupenda maschera tragica di Massimo Troisi, quasi un dipinto macchiaiolo sullo sfondo incantato e selvaggio di Procida e Salina, che con quella sua voce inconfondibile, spezzata e avvolgente, sussurra «Nuda sei semplice come una delle tue mani/ liscia, terrestre, rotonda, minima, trasparente».
Un’associazione ovvia e sacrosanta, visto che quel film, Il postino per l’appunto, girato nel 1994, è un capolavoro, oggettivamente e senza troppo da aggiungere. E lo è, soprattutto, a prescindere dalla ovvia fiumana di emozioni che si porta dietro da sempre per la morte del grande attore di San Giorgio a Cremano poche ore dopo l’ultimo ciak, per quel suo straziante stoicismo che, benché perfettamente consapevole della gravità delle sue condizioni, volle a tutti i costi girare questo film, e per quella didascalia «Al nostro amico Massimo» che appare su fondo nero dopo l’ultima commovente inquadratura, come una definitiva mannaia sul nostro equilibrio emotivo.
Un pieno di lacrime e commozione inevitabile e incancellabile che, tuttavia e paradossalmente, ha sempre finito per oscurare in qualche modo la grandezza della pellicola, anteponendo la perdita di Troisi alla valutazione oggettiva dell’ultima sua prova per quello che è. Vale a dire un capolavoro, sotto ogni punto di vista. Uno dei tanti abbagli dell’Accademy Awards, che a fronte di cinque sacrosante candidature, concesse solo l’Oscar a Luis Bacalov per la Miglior Colonna Sonora Originale (salvo poi scoprire, nel 2011, che la melodia sublime del grande compositore era un plagio clamoroso), quando un film di tale levatura e intensità avrebbe meritato ben altri riconoscimenti.
Ma andiamo con ordine.
All’origine di tutto, c’è il romanzo dello scrittore cileno Antonio Skármeta, originariamente intitolato Ardente paciencia, dove, sullo sfondo di anni cruciali e drammatici per la storia del Cile (il racconto si svolge tra il 1969 e il 1973, tra il sogno della socialdemocrazia di Allende e il golpe di Pinochet), si racconta la vicenda del giovane Mario Jiménez, nato e cresciuto in un piccolo borgo di pescatori, Isla Negra, situato sulla costa. Anch’egli figlio di un pescatore, Mario si ribella a quella legge non scritta che lo vorrebbe pescatore a sua volta, e possedendo una bicicletta e soprattutto sapendo leggere e scrivere, accetta una proposta di lavoro come postino, benché la paga sia scarsa e benché nel paese, abitato quasi interamente da analfabeti, vi sia un solo residente che riceve posta, il grande poeta Pablo Neruda, che è solito passare lì parte delle sue vacanze.
Tra i due nasce un’improbabile quanto profonda amicizia, che porterà entrambi a una crescita e a una maggiore conoscenza di sé. In particolare Mario, grazie a Neruda, riuscirà a dichiarare i suoi sentimenti alla bellissima Beatriz, che diventerà sua moglie. E diventerà poeta a sua volta, riuscendo a partecipare a un importante concorso letterario. I numerosi impegni di Neruda allontanano i due, anche se Mario non smetterà mai di inseguire il celebre amico. Si ritroveranno solo alla fine, quando il grande poeta ormai malato, proprio nei giorni del golpe di Pinochet e della morte di Allende, verrà assistito sul letto di morte proprio dal suo ex postino, che poi, in un finale quanto mai emblematico, verrà portato via dai militari «per rispondere ad alcune domande».
Antonio Skármeta
È senza dubbio uno dei romanzi più importanti, se non il più importante, della vasta produzione di Skármeta, dove le tematiche più amate e praticate dallo scrittore, l’amore e gli affetti da un lato, la lotta politica dall’altro, si compenetrano fino a fondersi in un tutt’uno coerente e compatto sostenuto alla perfezione da una prosa rapida e al tempo stesso rotonda, calda, tipicamente latinoamericana. Tuttavia, sulle prime il romanzo fu sostanzialmente ignorato. Solo in seguito, quando venne ripubblicato con il titolo El cartero de Neruda (Il postino di Neruda nella traduzione italiana), ebbe un immediato e travolgente successo internazionale. Tra le due edizioni non vi è alcuna differenza, nemmeno una virgola diversa, tranne il titolo. Ma evidentemente, nel 1986, in un momento di particolare fortuna della letteratura sudamericana, il solo e semplice riferimento a Neruda seppe fare da traino.
Il resto è storia abbastanza nota. Il romanzo, nella traduzione delle edizioni Rizzoli, arrivò a Massimo Troisi che se ne innamorò perdutamente, al punto da smuovere mari e monti per acquistarne i diritti. Molto meno noto è che, all’epoca dell’acquisizione dei diritti, una versione cinematografica del romanzo esisteva già. Un piccolo film indipendente a basso costo che conservava il titolo originale del libro Ardente paciencia, prodotto in Germania e sceneggiato e diretto dallo stesso Skármeta, alla sua prima e ultima prova dietro la macchina da presa. Ovviamente fedelissimo al romanzo in maniera a dir poco didascalica, il film, tutt’altro che memorabile, ebbe scarsissima eco e fu ben presto dimenticato, al punto che, quando uscì la versione di Troisi nessuno lo menzionò. E oggi reperirlo è quasi impossibile.
E prima che Troisi si mettesse al lavoro sulla sceneggiatura con Radford, Scarpelli e soprattutto con la fidatissima Anna Pavignano, insieme a lui sin dal film d’esordio, Ricomincio da tre, troviamo un ulteriore adattamento, sempre firmato da Skármeta, sempre per forza di cose fedelissimo al romanzo e sempre con il titolo originario Ardente paciencia. In questo caso però la destinazione era il teatro, con la regia di Luigi Pistilli, presentato in anteprima al Festival di Asti del 1989. Ma anche questa seconda riduzione non riscosse molto successo. Così come sotto silenzio è passata un’ulteriore versione, di nuovo con il medesimo titolo e anch’essa del tutto sconosciuta, benché recentissima. L’ultimo Ardente paciencia è uscito infatti nella piattaforma digitale Netflix nel 2022, per la regia di Rodrigo Sepulveda e con una sceneggiatura firmata dallo stesso regista e ancora da Antonio Skármeta. Ulteriore tentativo di dare vita a una versione cinematografica del tutto aderente al romanzo, il risultato è decisamente al di sotto delle aspettative.
Il successo clamoroso e mondiale, come sappiamo, è stata, ed è, materia esclusiva de Il postino, uscito nelle sale nel 1995. E che, come dicevamo, è un capolavoro sotto ogni punto di vista.
Grandiosa è anzitutto la sceneggiatura. A differenza delle due versioni precedenti, Il postino cambia diverse cose. A partire dall’ambientazione, non più il Cile a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, ma il sud Italia del 1952 (anno in cui Neruda visse effettivamente in Italia, prima a Capri e poi a Ischia), con Mario Jiménez che diventa Mario Ruoppolo e i due amici, Mario e Neruda, che si separano per la fine dell’esilio imposto al poeta dalla autorità cilene. Nel film non si vedranno mai più, e a morire non è il poeta, ma il postino, ucciso durante un brutale pestaggio della polizia durante una manifestazione comunista, dove doveva leggere una poesia da lui composta. Tuttavia, non vi è alcuno stravolgimento dell’opera di Skármeta. La grandezza del lavoro di sceneggiatura sta proprio nel non aver voluto a tutti i costi riprodurre fedelmente il romanzo, evitando così forzature di ogni sorta (un Troisi cileno sarebbe stato a dir poco grottesco), ma viceversa di aver cucito la storia addosso all’universo, interiore e non, del grande artista napoletano, senza però tradire gli intenti e i significati centrali dell’opera originaria, restituendo in pieno quell’equilibrio tra affresco sentimentale e lotta politica proprio del romanzo.
La differenza più rilevante tra libro e film sta nel fatto che nella pellicola di Troisi Neruda resta più in ombra. Se nel romanzo, come ricordato in precedenza, si dà eguale spazio alla crescita interiore di entrambi scaturita dalla loro amicizia, nel film i riflettori narrativi si accendono sul personaggio di Mario, sul suo personale triplo percorso di formazione, sentimentale, poetico e politico, con Neruda a fargli da mentore assoluto. Anche in questo caso, l’adattamento è, se non proprio obbligato, di sicuro azzeccatissimo, costruito per esaltare al massimo lo sguardo malinconico e struggente di Mario/Troisi sul mondo, sulla storia, sulla poesia.
E grandiosa è anche la regia che, nonostante la locuzione «Il postino di Troisi» sia prassi sin dall’uscita del film, non è firmata da Massimo Troisi, ma da Michel Radford, scelto dallo stesso attore. Non è chiaro se non dirigere questo film sia stata scelta dettata dai problemi di salute oppure da effettiva volontà artistica, mentre è certo che quel «diretto da Michel Radford con la collaborazione di Massimo Troisi» che compare nei crediti sia puro omaggio post mortem e che la regia fu in mano al solo Radford. Eppure, nonostante questo, quel «Il postino di Troisi» continua ad avere un senso al di là dei tributi e al di là dell’interpretazione gigantesca dell’attore. Vale a dire che Il postino è, in senso del tutto autoriale e nonostante non ne abbia firmato la regia, un film di Massimo Troisi. Lui ha disegnato il progetto, ne ha tracciato i percorsi e gli intenti, ha scelto le persone con cui lavorare e le ha traghettate nel suo universo di stupore e poesia. E Michel Radford, in quell’universo stupefatto e vertiginoso, ci è caduto beatamente e meravigliosamente.
In altre parole, Radford non ha fatto una regia al servizio del Troisi attore, come spesso accade quando si dirige un attore enorme e “cannibale”, ma al servizio del Troisi regista, che della generazione anni Ottanta dei comici “tuttofare”, era sicuramente l’unico ad avere uno spessore di autore pari alla sua grandezza di interprete.
Per questo il film a ogni inquadratura trasuda lo sguardo di Troisi, quella dolcezza indolente eppure affamata di vita, quello sguardo allo stesso tempo pacato e inquieto, quella delicatezza disincantata, capace di andare a scavare negli anfratti più profondi dell’anima con un amore e un rispetto per le cose e le persone che ancora scuotono. Se tanto la regia quanto la sceneggiatura avrebbero senza dubbio meritato la statuetta, quasi delittuoso che non gli sia stato assegnato l’Oscar come miglior attore. E non già perché l’interpretazione sovrasti scrittura e regia, ma perché quella maschera tragica cui accennavamo in apertura, è sintesi, origine, fine e giustificazione di tutto. Lì, nei sentieri delle rughe, nell’incavo delle guance scavate, nella magrezza sofferente eppure capace di spalancarsi in oceani di pura luce e pura gioia, Massimo Troisi ha saputo trovare, sussurrando a mezza voce, il grido della poesia più vera e più pura, dell’essenza, del ruolo e della funzione ultima della poesia.
Che è quello di raccontarci lame affilate che affondano implacabili nella polpa dei pomodori, le reti tristi dei pescatori e lo splendido sorriso di Beatrice. E di ricordarci che sì, il mondo intero proprio è la metafora di qualcosa. Di cosa chissà, ma sicuramente qualcosa di immenso. Che, come ricordava Ferlinghetti, esisterà e resisterà fintanto che qualcuno si ostinerà a voler chiudere i fiori in prigione.
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