C’era una sorta di tormentone che circolava intorno al nome di Sergio Corbucci. Quando a Burt Reynolds veniva chiesto, nelle interviste, come era arrivato a girare in Italia Navajo Joe (1966), tendeva a raccontare la stessa storia. Che aveva chiesto consiglio all’amico Clint Eastwood, che era diventato una star internazionale nella “trilogia del dollaro” di Sergio Leone, e questi gli aveva suggerito di farsi ingaggiare proprio dal regista romano. Una volta giunto in Italia, le cose erano andate diversamente. Reynolds concludeva il suo racconto nel solito modo: «Ho sbagliato Sergio». Si riferiva ovviamente all’autore di Navajo Joe, Sergio… Corbucci.

Corbucci ha indubbiamente dato il meglio di sé nello “spaghetti-western”, con oltre una dozzina di film tra il 1964 e il 1975. Inizialmente, nessuno dei suoi western ha goduto del successo di critica dei film di Leone, ma il lavoro di Corbucci è per molti versi molto più eclettico e ha innegabilmente influenzato il filone più del suo prestigioso collega.
Mentre il cinema di Leone è entrato nell’immaginario collettivo, il contributo di Corbucci rimane ancora per massima parte non celebrato (a parte l’incisiva “riabilitazione” di Quentin Tarantino, che nei suoi due ultimi film ha ampiamente utilizzato l’iconografia cinematografica corbucciana).

Corbucci esordisce come regista di film melodrammatici, fa qualche incursione significativa nel peplum, imprime il suo stile nel cinema di Totò degli anni Sessanta, e con Massacro al Grande Canyon (1964), che firma Stanley Corbett e co-dirige con Albert Band, anticipa di alcuni mesi Per un pugno di dollari. Anche il successivo è un film western, Minnesota Clay, uscito nelle sale italiane due mesi dopo il classico di Leone. 

Minnesota Clay vive ancora in due mondi. Western molto più tradizionale rispetto alla maggior parte dei successivi western italiani, il film sancisce anche l’insolita predilezione di Corbucci per gli antieroi mutilati (il personaggio del titolo è accecato prima del finale) e le immagini incoerenti (il direttore della fotografia del film è Mario Bava, che conferisce al film un’immagine sporca, polverosa…).

Con il successo planetario di Per un pugno di dollari, Corbucci si ritrova improvvisamente a far parte di un filone di successo. Il cinema italiano ha una lunga storia di sottoprodotti imitativi di successo (horror, mitologico, fantascienza…) e, dopo il 1964, gli “spaghetti-western” diventano all’ordine del giorno. Per stare al passo coi tempi, Corbucci arriva a girare fino a tre western all’anno.

Non vuol dire che Corbucci fosse un semplice imitatore, anzi questa libertà di azione gli permetteva di introdurre tutta la sua progettualità surreale (e ironica).

Esasperando i confini dello stile e del gusto, i western di Corbucci hanno preso il testimone da Leone ma sono partiti per la tangente, proponendo immagini di una violenza rivoltante con protagonisti cinici, spesso amorali. “L’uomo senza nome” di Leone avrebbe dovuto risvegliare la fame del pubblico per un antieroe, ma Corbucci costruisce antieroi animati dalla volontà di compiere una vendetta da Antico Testamento su leader corrotti e sadici.

I western di Corbucci – economici, spesso improvvisati, visivamente disuguali – non si somigliano molto tra loro. Visti insieme, tuttavia, emergono alcuni punti in comune: massacri su larga scala in cui vengono uccise dozzine di uomini contemporaneamente; scene di mutilazione, solitamente riservate al protagonista; e luoghi che all’epoca erano insoliti per i western, creando atmosfere di cupezza e terrore più in linea con certo cinema post-neorealista -codificato degli anni ’50.

Quando Corbucci decide di ambientare Django nella neve, il suo produttore gli dice che «la neve in un western porta sfortuna ed è costosa». Si arriva ad un compromesso: il paesaggio viene avvolto nella nebbia e nel fango, una mossa visivamente senza precedenti per un western. Gran parte della fama di Django deriva dall’essere stato il trampolino di lancio della carriera di Franco Nero, una star davvero nata nei lunghi primi piani che Corbucci offre al suo bell’attore ventiquattrenne dagli occhi azzurri. Ma questo aspetto ha oscurato il fatto che Django rappresenta un punto di svolta nell’evoluzione del western italiano. La rete di alleanze, tradimenti e vendette del film è più complessa, più sanguinosa e più cattiva di qualsiasi altra cosa sia apparsa nei film di Leone, e decenni di personaggi che usano le bare per nascondere armamentari vari derivano da questo pistolero che trascina la sua bara di legno nel fango. La carneficina scatenata dall’apertura di quella bara (quella di Django contiene una mitragliatrice Gatling) ha fatto vietare il film ai minori di 18 anni (fatto senza precedenti in Italia), mentre nel Regno Unito la censura lo rese disponibile nelle sale solo nel 1993.

Il regista/storico del cinema Alex Cox attribuisce a Corbucci il merito di aver creato il violento “universo imprevedibile e omicida” dello Spaghetti Western, e quando un bandito in Django taglia l’orecchio di un uomo davanti alla cinepresa prima di darglielo in pasto, è difficile contraddirlo – Quentin Tarantino se ne ricorderà in Le iene (Reservoir Dogs, 1992). Certo poi Cox esagera, equiparando certi “western-spaghetti” ai classici di Hollywood.

Questo universo è amplificato ne I crudeli, apparso lo stesso anno di Django. Ambientato subito dopo la fine della guerra civile, il film evita i protagonisti tradizionali per un gruppo di assassini a tutto campo, fanatici confederati il ​​cui obiettivo è finanziare e lanciare una nuova guerra civile ad ogni costo. Corbucci si diverte a dirigere una sorta di proto-fumetto dall’umorismo nero, con una violenza ironica e un finale stravagante. Una sorta di western noir da taglio cattolico.

E così si arriva al paesaggio innevato, nel 1968, de Il grande silenzio. In contrasto con i paesaggi di un bianco accecante, c’è la trama più nera che Corbucci abbia girato: in una remota città di montagna chiamata Snow Hill, i cacciatori di taglie depredano i “banditi”, in realtà simpatici ladruncoli affamati che si nascondono nella periferia della città e rubano per mangiare. Quando il capo dei cacciatori di taglie (Loco, interpretato con gusto da Klaus Kinski) uccide il marito di una giovane donna (Vonetta McGee), lei arruola Silenzio (Jean Louis Trintignant), un sicario reso muto anni prima dagli assassini dei genitori. Silenzio affronta i cacciatori di taglie e gli uomini potenti che li hanno assoldati, portando a una resa dei conti finale contro Loco. Ma qui Corbucci stravolge l’intero genere con il suo stoico eroe che viene spietatamente freddato durante il duello culminante. Il malvagio Loco e i suoi amici cacciatori di taglie si allontanano verso il tramonto. Fine. È devastante, la versione western de La notte dei morti viventi/Night of the Living Dead, non a caso uscito lo stesso anno.

Il grande silenzio rimane un distillato di tutti i meravigliosi contributi di Corbucci al genere: la sua eccentricità visiva, la sua propensione per i protagonisti non convenzionali e il suo pessimismo politico. Continuerà a fare western fino al 1975, alcuni più meritevoli di altri (Vamos a matar compañeros è un titolo essenziale del suo periodo successivo), stabilendosi nella commedia cinematografica e nel lavoro televisivo fino alla sua morte nel 1990.

Grazie a “evangelisti” come Alex Cox e Quentin Tarantino, il pubblico ha finalmente riscoperto il suo lavoro, e quando sul grande schermo appare un cacciatore di taglie che lega cadaveri su una diligenza innevata, finalmente scattano i rimandi, la genesi di quell’immagine. 

E per tornare a Burt Reynolds e Navajo Joe? Sebbene a Reynolds piacesse affermare che il film era così brutto da averlo proiettato solo nelle prigioni e sugli aeroplani “perché il pubblico non poteva andarsene”, Alex Cox lo ha definito “il migliore di tutti i possibili veicoli di Burt Reynolds”. Con la sua colonna sonora che evoca il grido di guerra indiano (per gentile concessione di Ennio Morricone), e gli attori con il volto posticcio a simulare i pellerossa, Navajo Joe merita di essere riscoperto.

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