Braccato dalla polizia, il gangster esperto Abel Davos (Lino Ventura) scampa alla cattura fuggendo in Italia con la moglie Thérèse e i loro due bambini. Stanco di scappare, Davos decide di abbandonare la carriera criminale, ma solo dopo aver portato a termine un’ultima rapina a Milano, assistito dal suo fedele complice Raymond. La rapina va come previsto, ma Davos e Raymond sfuggono per un pelo alla cattura mentre si dirigono verso il confine francese. Dopo aver sottratto un’imbarcazione, i criminali sbarcano su una spiaggia deserta nel sud della Francia, ma vengono sorpresi da due doganieri armati. Nel successivo scambio a fuoco, Raymond e Thérèse vengono uccisi. Disperato, Davos si nasconde con i suoi due figli. Rendendosi conto che la fortuna non è dalla sua parte, l’uomo si rivolge ai suoi soci malavitosi a Parigi che accettano – con riluttanza – di mandare qualcuno a prelevarlo per riportarlo nella capitale. L’uomo incaricato di questo compito è Éric Stark (Jean-Paul Belmondo), un delinquente giovane ma affidabile. Con l’aiuto di Stark. Davos riesce a tornare a Parigi e, rendendosi conto che i suoi vecchi amici lo hanno tradito, intraprende una spietata campagna di vendetta con l’aiuto del giovane col quale è entrato in empatia…

Il regista Claude Sautet è ricordato soprattutto per i suoi film introspettivi che rappresentano la maggior parte della sua filmografia, a cominciare da L’amante (Les Choses de la vie, 1970) e concludendo con Nelly e Mr. Arnaud (Nelly et Monsieur. Arnaud, 1995). Dato l’impatto di critica che questi film hanno avuto, si dimentica molto spesso che il primo grande successo commerciale e di critica di Sautet avvenne su un registro completamente diverso, vale a dire nella realizzazione di un classico polar francese. Asfalto che scotta (Classe tous risques, 1959), non solo ha attirato l’attenzione su Sautet (aveva diretto solo un film prima di questo, ampiamente rinnegato), ma ha anche contribuito a lanciare definitivamente una delle icone più durature del cinema francese, Jean-Paul Belmondo, dando inoltre il via alla carriera di un’altra leggenda del cinema francese, Lino Ventura (sugli schermi già da un po’ di tempo).

Con il suo solido cast, la scrittura nervosa e una certa libertà produttiva, Classe tous risques si distingue dalla maggior parte dei film polizieschi francesi del suo tempo e si inserisce senza sforzo nella scia della Nouvelle Vague. Si tratta di un ispirato adattamento del romanzo omonimo di José Giovanni, pubblicato pochi anni prima. Ex carcerato (scampato per un pelo alla pena capitale subito dopo la guerra per collaborazionismo), Giovanni riuscì a forgiare una nuova carriera come scrittore di gialli con Le Trou, il suo racconto di un’evasione dal carcere in cui era coinvolto. Dopo che l’adattamento de Il buco (Le Trou, 1960), di Jacques Becker, si era rivelato un successo, Giovanni fu presto ingaggiato per scrivere la sceneggiatura del suo romanzo successivo, Classe tous risques. Questo secondo successo portò Giovanni ad adattare molti altri suoi romanzi e in breve tempo è diventato uno degli sceneggiatori di genere poliziesco più prolifici e rispettati del cinema francese (torneremo su di lui in un prossimo contributo).

In tutti i suoi romanzi polizieschi, José Giovanni ha attinto fortemente alla sua esperienza diretta del mondo sotterraneo del crimine parigino (conosciuto localmente come Le Milieu). Il protagonista centrale di Classe tous risques, Abel Davos, è strettamente modellato sul famigerato gangster e sicario della Gestapo Abel Danos (soprannominato le Mammouth), che Giovanni aveva incontrato mentre era recluso nel Carcere della Santé, non molto tempo dopo la Liberazione. Il libro e il film ignorano totalmente gli sporchi rapporti di Danos con la Gestapo e lo presentano come un simpatico malavitoso stanco del mondo, desideroso di lasciarsi alle spalle il suo passato criminale, in vero stile film noir. È interessante notare che uno dei soci criminali di Danos era l’altrettanto famigerato Pierre Loutrel, meglio conosciuto come Pierrot le fou, il nome assegnato a un personaggio interpretato da Belmondo nel film successivo di Jean-Luc Godard Il bandito delle 11 (Pierrot le fou, 1965).

Claude Sautet non era una scelta così improbabile come regista per un film come Asfalto che scotta come può apparire ora. Aveva lavorato come assistente nel film dall’atmosfera inquietante Occhi senza volto (Les Yeux sans visage, 1959), di Georges Franju, e aveva dimostrato un talento naturale per il thriller duro sceneggiando La belva scatenata (Le Fauve est lâché, 1959), di Philippe Labro, proprio con Lino Ventura nel ruolo principale. Come in quest’ultimo film, Sautet si è ispirato più ai film polizieschi americani degli anni ’50 che a quelli francesi contemporanei, e questo si manifesta nella frizzante modernità del film e nella sua implacabile, spesso visceralmente scioccante, grinta.

Gran parte della pellicola è stata girata in esterni (a Milano, Nizza e Parigi), utilizzando tecniche che oggi associamo alla Nouvelle Vague francese. La scena di una rapina diurna all’inizio del film è stata girata nei pressi di piazza del Duomo a Milano con cineprese nascoste, per cui la reazione della folla circostante è di autentico panico e apprensione. La fotografia di Ghislain Cloquet amalgama efficacemente la stilizzazione ad alto contrasto che associamo al classico film noir americano con un realismo più prosaico, quasi documentaristico – e questo dà l’impressione di un film che è allo stesso tempo rassicurante nella descrizione del contesto familiare e paurosamente imprevedibile, un drammatico contrasto tra ordinario e fantastico.

In un momento in cui il film poliziesco in Francia stava esaurendo la sua vena per trasformarsi in parodia  – spesso con Ventura che, a malincuore, incoraggiava il genere, in film come Il gorilla vi saluta cordialmente (Le gorille vous salue bien, 1958), di Bernard Borderie -, Classe tous risques rilanciò il filone in una nuova prospettiva. Il film ha avuto un buon successo di pubblico e di critica, attirando in Francia 1,7 milioni di spettatori. Al contrario, il successivo tentativo di realizzare un film poliziesco, Corpo a corpo (L’Arme à gauche, 1964), si rivelò un fallimento (nonostante ancora la presenza di Ventura nel ruolo principale) e questo portò il regista ad abbandonare del tutto il genere.

Per Lino Ventura, l’opportunità di interpretare un personaggio più completo e credibile, in contrasto con gli archetipi stancamente familiari del gangster o dell’eroe d’azione, fu una manna dal cielo salvandogli la carriera proprio mentre la disillusione stava convincendolo a cambiare mestiere. La costruzione di José Giovanni del suo personaggio (che comunque non rifugge dall’abietta brutalità del suo ambiente) permette all’attore di modellare un carattere più sviluppato e complesso rispetto al solito, e non è certo un caso che Classe tous risques mostri l’attore al suo meglio: fragilmente devastante in alcune scene, assolutamente spietato in altre, convincente in ogni sua azione che, sebbene gravemente compromesso dalla sua attività criminale, conserva ancora qualche traccia di decoro. La tenerezza che il suo personaggio suscita nelle scene con i suoi figli fa da contrappunto a ciò che si vedrà più avanti nel film, quando si rivolta contro i suoi compagni gangster e li giustizia a sangue freddo.

Jean-Paul Belmondo era ancora praticamente sconosciuto quando venne scelto per Asfalto che scotta. Fu solo con l’uscita di Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960), di Jean-Luc Godard, poche settimane prima dell’apparizione del film di Sautet che si impose come una star.

In effetti, Sautet dovette lottare duramente per garantire a Belmondo il ruolo secondario di Éric Stark, un simpatico teppista alle prime armi non ancora “sfregiato” dalle sue attività con la malavita. I produttori volevano un attore più affermato (Laurent Terzieff o Alain Delon) per la parte, e fu solo dopo un lungo stallo che quasi fece deragliare il progetto che Sautet alla fine vinse, sostenuto fino in fondo da Ventura. La fiducia di Sautet in Belmondo è stata ampiamente ricompensata: il fascino giovanile e disinvolto dell’attore e l’innocenza fanciullesca costituivano il complemento perfetto all’aura di introspezione ferita e stanca di Ventura, che rivelava un uomo completamente logorato dalla triste realtà della sua professione. Sia Sautet che Giovanni meritano il plauso per l’autenticità e la maestria che apportano al film, ma alla fine è l’ispirata coppia Ventura-Belmondo a renderlo così avvincente, toccante e memorabile.

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