Nella storia recente non si registrano traumi collettivi paragonabili a quello che per i giapponesi ha significato la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale. La profanazione della madre patria – con lo sbarco delle truppe americane – la devastazione degli ordigni nucleari su Hiroshima e Nagasaki e infine la dichiarazione della natura umana dell’imperatore da parte di Hirohito hanno posto fine a tradizioni millenarie costringendo il popolo giapponese a entrare una volta per tutte nella cosiddetta modernità.
Per molti soldati la sconfitta si dimostrò un evento talmente inconcepibile da portarli a ritenere semplice propaganda del nemico le comunicazioni che annunciavano la fine delle ostilità. Per giunta il codice etico del Bushido considera la resa particolarmente disonorevole rafforzando la convinzione che proseguire le operazioni militari fosse l’unica opzione possibile per un vero combattente. Tra i casi di questi soldati fantasma, quello di Hiroo Onoda è probabilmente il più celebre.
“Non appena le nostre truppe saranno partite da Lubang, avrà il compito di tenere occupata l’isola fino al ritorno dell’esercito imperiale. Dovrà difendere questa zona con la guerriglia, a qualunque costo”1 sono i semplici ordini – insieme al divieto di togliersi la vita in caso di cattura – ricevuti dai superiori. Onoda interpretò il suo mandato alla lettera, difendendo una piccola isola nell’arcipelago delle Filippine per 29 anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
È inevitabile che questa vicenda attirasse l’attenzione di Werner Herzog a tal punto da fargli preferire nel 1997 rifiutare l’opportunità di incontrare l’Imperatore pur di conoscere Onoda: la natura estrema della giungla filippina come quella amazzonica di Aguirre o Fitzcarraldo, un personaggio fuori dal mondo come Kaspar Hauser e Nosferatu (ma anche il protagonista di My son, my son, what have ya done) e il racconto di un fallimento inevitabile eppure grandioso nella sua totalità sono elementi ricorrenti nella filmografia di Herzog. Il ritratto che il regista tedesco ci fornisce della lotta condotta a oltranza da Onoda confluisce nel suo libro Il crepuscolo del mondo.
Gli amanti del cinema di Herzog ritroveranno qui anche il suo stile narrativo: fatti, fatti e ancora fatti, con episodi talvolta brevi e apparentemente insignificanti che si susseguono senza soluzione di continuità. Significativo lo spazio lasciato alla riflessione, destinato alla creazione di una dimensione che potremmo definire letteraria: con la sua resistenza Onada “diventa un mito. Per la gente del posto è il fantasma della foresta, di lui si parla solo sottovoce” mentre l’invincibile nemico sembra quasi un semidio (“gli americani hanno i denti del giudizio? E poi, sono veramente come gli altri esseri umani?”). Una sorta di regressione mitologica che investe anche gli oggetti: “penso che nelle armi vi sia qualcosa di innato che gli uomini non riescono a influenzare. Che sviluppino forse una vita propria, una volta inventate?” si chiede Onoda. Nel rapporto con il tempo la vicenda narrata da Herzog trova il suo senso più profondo. Nella solitudine della foresta, il tenente Onoda si chiede spesso se la sua infinita marcia nella giungla non sia stata che un’illusione. “Non c’era nessuna prova che quando era sveglio fosse sveglio, e nessuna prova che quando sognava stesse sognando” annota l’autore, che identifica proprio in questo il crepuscolo del mondo del titolo.
Forse ogni uomo sogna la propria storia ed è curioso che Borges ambienti proprio nella giungla Le rovine circolari, il suo racconto su questo tema. Ma se fosse veramente così, cosa resterebbe per fuggire alla disperazione? Possiamo fare nostra la risposta di Onada individuata nel distico che cantava per infondersi coraggio:
Posso sembrare un vagabondo o un mendicante,
Ma tu, luna silente, sei testimone dello splendore della mia anima.
1 Questa e le altre citazioni sono state tratte dal libro di Werner Herzog Il crepuscolo del mondo, Feltrinelli, Milano, 2021
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