Chi non ha visto almeno una volta La vita è meravigliosa di Frank Capra? Ce lo propinano da decenni ad ogni Natale. Il film è obiettivamente un classico, molto bello, con James Stewart nel ruolo di George Bailey, quasi allo zenit delle sue capacità attoriali, e una Donna Reed (la moglie di George) che per me era il paradigma della moglie ideale. Per farla breve, George arriva a un certo punto della sua vita nel quale è tentato fortemente dall’idea del suicidio: anzi, è spinto dalla vita all’idea del ‘farla finita’; la causa è, come sapete tutti, un fallimento economico. George è infatti un uomo positivo, ben voluto, sposato con una bellissima ragazza che per giunta lo ama (e quando mai succede nella vita?), stimato costruttore di Pottersville, la città che prende il nome da un ricco, arido-avido-odiatissimo Scrooge del posto, di cui George diventa concorrente. Ma la bancarotta spinge George Bailey a una tale disperazione che arriva al punto di desiderare di non essere mai nato. A questo punto, come accade nelle migliori favole, giunge in suo soccorso (ma George non lo sa ancora) un angelo “di seconda classe” (senza ali) di nome Clarence Odbody, mandato da San Giuseppe apposta per salvare George dal suicidio. Clarence, non riuscendo sulle prime a convincere George che la sua vita è importante, esaudisce il suo desiderio: ecco, non sei mai nato. George si aggira per la città e nessuno lo riconosce, ma soprattutto constata l’infelicità e la disgrazia di tante persone che lui aveva aiutato o salvato: d’altronde non è mai nato e quindi non poteva -fra le tante cose- avvertire il farmacista, presso cui lavorava da giovanissimo, che stava inviando a un cliente del veleno, e non le medicine richieste. E quella che sarebbe dovuta diventare sua moglie, è invece una triste zitella che fa la bibliotecaria: uno stereotipo, questo, che non piace alla scrittrice Irene Vallejo, autrice di quello strano libro, metà saggio, metà autobiografia, che è Papyrus: “ed ecco che sullo schermo appare Mary, che sta effettivamente chiudendo la porta d’ingresso della biblioteca pubblica di Pottersville. Nell’uniforme d’ordinanza: abiti castigati, cipollotto sulla testa, occhialoni da vista. Cammina stringendosi al petto la borsetta: è piena di complessi, infelice (…) E, di fronte all’espressione inorridita di George, la reazione che ci si attende dallo spettatore è che inizi a strapparsi i capelli e a pensare: Tutto, ma una bibliotecaria proprio no”. 

La vita è meravigliosa è il classico film a sfondo motivazionale, il cui ottimismo è giustificato anche dal periodo storico in cui viene girato. Per quanto ingenuo possa sembrare l’ottimismo di Frank Capra, il film e la storia che narra non sono, però, banali, perché indirettamente e con obiettivi del tutto contrari, chiamano in causa la tesi dell’anti-natalismo. E qui facciamo un salto in avanti di quasi ottant’anni: Zain El Hajj, un dodicenne cresciuto in un quartiere povero di Beirut, ha avviato una causa legale contro i genitori per averlo messo al mondo, e perché essi si ostinano a fare altri figli, condannandoli a una vita miserabile. Il processo è l’occasione per ripercorrere la storia di Zain diversi mesi prima di essere arrestato per aver pugnalato un uomo. Questo in estrema sintesi il succo di Cafarnao, caos e miracoli, (2018), della regista Nadir Labaki, Oscar al miglior film in lingua straniera. Non mi risulta che il cinema abbia mai affrontato questo tema prima del film della Labaki. Ne La vita è meravigliosa di Frank Capra, George Bailey vorrebbe non essere mai nato, ma non gli sarebbe mai venuto in mente di citare in giudizio i suoi genitori per averlo messo al mondo.

L’idea non è così assurda, anche se, come vedremo non ha fondamenti in campo giuridico e legale. Almeno per ora. Di recente ho visto su Canale 5 in una puntata di Forum, condotta da Barbara Palombelli, un caso nuovo nell’ambito giurisprudenziale italiano, che sembra echeggiare in qualche modo il film della regista libanese Nadine Labaki. Come il ragazzo, che denuncia i propri genitori per averlo messo al mondo, una donna di nome Noemi ha sostenuto, in una causa civile che l’ha vista opposta alla madre, il suo diritto di donna ed essere umano cosciente, di non procreare onde risparmiare al povero fantolino una vita disgraziata e per giunta una delle fasi più critiche per il pianeta. Meglio l’adozione. “La procreazione non è un atto etico” sostiene Noemi che, con il marito Mattia, fa parte di un movimento (Birth Strike) soprattutto giovanile, anti-procreativo.

Il movimento parte da osservazioni e dati oggettivi che rimandano alla sovra-popolazione (saremo 9,5 miliardi nel 2050), e ai molti problemi ad essa legati, quali l’esaurimento delle risorse naturali, la povertà dilagante, la moltiplicazione virale delle guerre, le malattie sempre più incurabili e aggressive. Per non parlare del cambiamento climatico di cui stiamo vivendo tutti gli effetti più nefasti. No, meglio non venire al mondo. Tra poco non ci sarà più neanche un pianeta dove vivere normalmente. Il tema del Birth Strike ha poi una declinazione più squisitamente esistenziale: i genitori devono, dovrebbero, comunque, offrire al nascituro le migliori condizioni possibili per una vita, se non felice, serena o almeno dignitosa. Il giudice di Forum ha respinto la richiesta di Noemi, ritenendola inaccettabile anche sotto un profilo giuridico. Ma è un tema sul quale gli esperti di diritto e i politici impegnati nelle battaglie umanitarie dovrebbero accendere i riflettori. Non si tratta di incentivare un processo che porterebbe, se condotto ai suoi estremi, alla de-antropizzazione radicale del pianeta; stiamo, al contrario, tifando per la vita, la bella vita, figlia di una neo-responsabilizzazione che subordini la procreazione umana a un più elevato stato di coscienza individuale e sociale. Il tema presenta gravi implicazioni anche sotto il profilo storico: immaginate se la mamma di Hitler non avesse procreato: la storia europea e mondiale sarebbe (forse) oggi molto diversa (e in meglio) e soprattutto non avremmo dovuto sopportare l’orrore della Shoah! 

Meglio non essere nati. La filosofia del “mè funai” (μὴ φῦναι) affonda le sue radici nella cultura e nella letteratura greca antiche, se non vogliamo risalire ancora più indietro nel tempo: in Sofocle (Edipo a Colono, 1224-1227) leggiamo “il non essere nati è condizione migliore di tutte, la seconda, una volta che si è nati, è di ritornare il prima possibile là dove siamo venuti”. Il terzo capitolo del libro “Emil Cioran, la filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia” di Vincenzo Fiore (uno dei massimi esperti italiani di Cioran, insieme ad Antonio Di Gennaro) si intitola, appunto, “μὴ φῦναι. Meglio non essere nati”. Ricordiamo che uno dei libri più belli di Cioran è L’inconveniente di essere nati, un libro cult. Vincenzo Fiore è uno scrittore e filosofo della Gen Z, essendo nato nel 1993. Tanto per dire che quella del mè phynai non è una filosofia o fisima di alcuni Boomer cresciuti a pane e Leopardi (La ginestra) per colpa di ragazze italiane che preferivano gli scemi belli e i palestrati agli intellettuali occhialuti (le donne non sono cambiate).

Marco Lanterna, autore del libro “Peisithanatos” (2021), sottotitolo La “Buona estinzione, è nato nel 1973, quindi non è un Boomer.  Marco Lanterna è uno scrittore che ha curato anche libri di Anacleto Verrecchia (1926-2012) e Sossio Giametta (1929-2024), due studiosi (scrittore e germanista il primo, filosofo il secondo) che vi consiglio di approcciare al più presto. Le introduzioni di Verrecchia ai libri di Schopenhauer come O si pensa o si crede e Aforismi per una vita saggia, pubblicati da Rizzoli nella collana Bur, valgono da sole il prezzo del biglietto. La tesi anti-natalista trova uno dei più recenti sostenitori in David Benatar, classe 1966, autore di Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence (“Meglio non essere mai nati, il dolore di venire al mondo”, Carbonio editore, 2016). Benatar è direttore del Dipartimento di Filosofia presso l’Università di Città del Capo. Il suo libro, che è ben documentato anche sul piano statistico, e tratta temi come la sovra-popolazione e gli squilibri economici delle società capitaliste, è ironicamente dedicato “ai miei genitori, anche se mi hanno messo al mondo”. Anch’io scriverei una caption di questo tipo: ho avuto genitori non esemplari (litigiosi, divorziati) ma che mi (ci, siamo in 4…) hanno educato nel complesso bene, credo. D’altronde se anche Gustave Flaubert ha scritto “l’idea di portare qualcuno in questo mondo mi riempie d’orrore…che la mia carne perisca completamente! Che io non trasmetta mai a nessuno la noia e l’ignominia dell’esistenza!”, non possiamo anche noi, modeste api operaie della penna (oggi della tastiera) pensare, pur con tutto il rispetto e l’amore per i genitori, che venire al mondo è un pessimo affare?

Il genere umano si estingue bene semplicemente smettendo di procreare: non tanto per un perverso istinto all’autodistruzione sociale (tanto ci penseranno i robot e l’intelligenza artificiale a mandare avanti il sistema), quanto per una sorta di rivolta filosofica contro la spaventosa assurdità e ingiustizia dell’esistenza umana; e soprattutto per sconfiggere la nemica numero uno dell’umanità, la Morte. Mentre la società contemporanea non riesce ancora a mettersi d’accordo sul giusto e dignitoso fine vita, cioè sul suicido assistito, nonostante gli encomiabili sforzi di Marco Cappato, nessuno vuole accettare la necessità di risalire alla scaturigine di tutti i mali del mondo: la nascita. Alziamo dunque i calici, brindiamo e godiamo la vita gridando all’unisono μὴ φῦναι!

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