Nel marzo del 1962 il direttore generale della cinematografia cecoslovacca Alois Poledňák e il direttore degli studi cinematografici di Barrandov – i più importanti del Paese – decisero di porre fine all’attività della commissione artistico-ideologica, promuovendo di contro commissioni artistiche indipendenti per ogni singolo gruppo di produzione istituito l’anno precedente (cinque operanti a Praga e due a Bratislava), creando i presupposti per una produzione ambiziosa e ulteriori strutture autonome.
Sono le basi per la nascita del più importante movimento cinematografico cecoslovacco, quella Nová Vlna di cui viene convenzionalmente fissato l’inizio nel film Slnko v síeti (Il sole nella rete, 1962) di Stefan Uher. “Uher, Věra Chytilová (Pytel blech, 1962, Un sacco di pulci) e Miloš Forman, furono i rappresentanti più significativi dell’“onda dei trentenni” cui subito si aggiunsero altri nomi: Jan Němec, Pavel Juráček, Evald Schorm, Ivan Passer, Jiří Menzel, Jan švankmajer, Hynek Bočan, Drahomíra Vihanová, e gli slovacchi Juraj Jakubisko, Jaromil Jireš, Juraj Herz, Dušan Hanák, Stanislav Barabáš, Dušan Trančík. Tutti squarciarono con i loro film il velo su una società in trasformazione con giovani e adulti insoddisfatti, e vecchi privi del falso sorriso ottimista; tutti alla ricerca di qualcosa d’altro”1.
Věra Chytilová
È evidente come a una fioritura così ricca dovettero concorrere molteplici fattori. La crisi economica che investì il Paese a inizio degli anni Sessanta indebolì la credibilità dell’establishment politico e il mondo culturale si affrettò a trarre vantaggio dalla situazione. “Libri prima proibiti o vituperati vennero ora pubblicati in edizioni economiche; film banditi vennero distribuiti nei cinematografi; parecchi piccoli teatri d’avanguardia si vennero a formare; nelle gallerie d’arte si inaugurarono le prime mostre di pittura astratta; improvvisamente evaporarono tutte le restrizioni nel campo dell’estetica musicale. Praga fu presto una città in cui era possibile tenersi al passo con il mondo teatrale e letterario a un grado superiore a quello possibile in molte capitali dell’Europa occidentale. Un po’ alla volta ciò cominciò a verificarsi anche per quanto riguarda il cinema straniero (con l’eccezione dei film americani)”2.
In un’intervista, Forman notò come prima del 1962 praticamente nulla fosse possibile nel cinema cecoslovacco, nonostante lui stesso avesse terminato la scuola di cinema già nel 1955 insieme a Věra Chytilová, Ivan Passer, Jaromil Jireš, Evald Schorm. La successiva impressione di un’esplosione improvvisa si ebbe perché non si sapeva che per lunghi anni tutti questi giovani ambiziosi avevano fatto la coda davanti alle porte chiuse degli studi di produzione. Nulla di improvviso quindi, bensì la maturazione di condizioni ideali che permettono ai cineasti cecoslovacchi di esprimere le loro idee. Occorre precisare come al “miracolo del cinema cecoslovacco” che portò consecutivamente tra il 1966 e il 1969 ben quattro opere a partecipare alla selezione per il premio Oscar come miglior film in lingua straniera (e due a vincere) parteciparono tanto le nuove generazioni che quella prebellica e postbellica: tutti i registi sperimentavano infatti per la prima volta la possibilità di girare i film come volevano.
Ivan Passer
Dal punto di vista della ricerca poetica e formale, la Nová Vlna si caratterizzò per una grande libertà e spesso beneficiò dell’identico percorso degli uomini di lettere, a testimonianza di come il nuovo corso del cinema cecoslovacco facesse parte di un ampio processo di trasformazione del corpus sociale. Fu un periodo di mutuo, fertile scambio in cui commediografi come Havel, Topol e Klíma, scrittori come Kundera, Fuks, Hrabal e Škvorecký diventavano abituali collaboratori dei registi più affermati. Percorsi analoghi ravvisabili anche nelle scelte formali: il boemista Giuseppe Dierna osserva acutamente come “se nel passaggio dagli anni ’50 al decennio successivo si era assistito, in letteratura, al passaggio dalla forma unitaria e ampia del romanzo – così come si era codificato negli anni ’50, ad esprimere una realtà esterna considerata statica e immutabile – alla forma breve del racconto o della novella, o ancora al romanzo, ma frammentato ora in una sequela di microstorie (e Lo scherzo di Kundera ne può essere l’esempio più virtuoso), non diversamente anche la cinematografia mostra nel nuovo decennio una netta avversione per la storia in quanto successione motivata di eventi, ad essa preferendo un’alogica struttura ad infilzamento (Le margheritine, 1966 della Chytilová), o le regole del contrappunto (O něčem jiném – Qualcosa d’altro, 1963 della stessa)”3
La “nuova ondata” del cinema cecoslovacco, con le sue storie di giovani afflitti da problemi esistenziali, il caratteristico bianco e nero a dare forma a stridenti conflitti generazionali, gli espressivi primi piani di volti patetici e commoventi, si concluse come tante altre cose con la repressione sovietica della primavera di Praga. I cingolati in piazza San Venceslao misero fine una volta per sempre all’esperimento più fertile della storia cinematografica del Paese.
1 Eusebio Ciccotti, Cecoslovacchia, in Enciclopedia del Cinema Treccani – Roma 2003
2 M. Liehm (a cura di), Il cinema nell’Europa dell’Est. 1960-1977, Marsilio, Venezia, 1977
3 Riportato in Roberto Turigliatto (a cura di), Nová Vlna – Cinema cecoslovacco degli anni ’60, Lindau, Torino, 1994
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