L’Ottocento è stato tanto il secolo della borghesia quanto quello del romanzo. E le due cose sono tutt’altro che scollegate. L’aumento progressivo ed esponenziale della scolarizzazione, e quindi dell’alfabetizzazione, incrociato con i progressi prodigiosi della seconda rivoluzione industriale che hanno interessato anche il settore della stampa – e di conseguenza dell’editoria – e con l’invenzione del concetto di «tempo libero», hanno fatto sì che il romanzo, fino ad allora considerato alla stregua di un “parente povero” della poesia e di altre forme letterarie, si prendesse la sua clamorosa rivincita, diventando in un tempo straordinariamente breve fulcro e motore della produzione letteraria.
Grazie soprattutto alle pubblicazioni a puntate sulle riviste, il romanzo si impose come genere popolare e d’intrattenimento, andando a coprire una gamma di lettori – e di gusti – a dir poco enorme, così ampia da far coesistere sempre e senza soluzione alcuna di continuità capolavori sublimi e prodotti dozzinali. Per soddisfare e venire incontro a uno spettro di richieste ed esigenze così vaste e variegate, fu tanto rapida quanto ovvia e naturale la definizione dei generi, ognuno con le proprie regole, i propri stereotipi e i propri personaggi tipici. Particolare fortuna ebbero i generi riconducibili alla categoria del “fantastico”, in particolare quello che all’epoca si definiva «romanzo gotico» e che poi sarebbe stato chiamato più semplicemente «romanzo horror».
L’idea di un racconto dove luoghi e situazioni di partenza erano del tutto “normali”, esperibili e riconoscibili da chiunque, descritti e presentati con un realismo assolutamente minuzioso ed estremamente particolareggiato, ma dove poi, d’improvviso e senza apparenti spiegazioni, irrompeva l’orrore, il mostruoso, l’insondabile, la presenza “altra”, il soprannaturale, era la metafora perfetta di tempi che si preparavano a scoprire l’inconscio, a fare i conti con il lato oscuro di ognuno di noi, nonché, soprattutto, con il lato oscuro del mondo, che dietro le luci sfavillanti di un progresso che pareva non avere mai fine e portare soltanto benessere, già nascondeva l’abisso delle guerre e degli stermini di massa. Inaugurato dal successo di Frankestein di Mary Shelley – l’esito più felice della famosa disfida letteraria lanciata da lord Byron ai suoi amici scrittori radunati sul lago di Ginevra – il genere trovò un pioniere straordinario come Edgar Allan Poe e nel corso del secolo autori come Lovecraft e Stevenson. Ma fu a fine Ottocento che conobbe la sua definitiva esplosione. Il nome più importante è senza dubbio quello dell’irlandese Bram Stoker, che proprio a fine secolo, nel 1897, dopo un lungo lavoro di ricerca e documentazione, diede alle stampe il monumentale Dracula.
Capolavoro assoluto, il romanzo per prima cosa stravolse il mito del vampiro proveniente dal folclore e fin lì conosciuto (in letteratura era stato descritto a inizio secolo dal romanzo Il vampiro, di John William Polidori, trasformandolo in un mito aristocratico. Per farlo, Stoker utilizzò come base la figura storica del principe di Valacchia Vlad III, vissuto nel XV secolo, immaginandone la dannazione e la trasfigurazione demoniaca che gli valsero mutazione in vampiro e immortalità. Mescolando gli espedienti tipici del romanzo storico, di quello d’avventura e di quello d’appendice, con uno stile denso e cupo che alterna più punti di vista e più livelli di narrazione, in un crescendo di suspense e terrore, lo scrittore irlandese seppe dare vita a un’opera capace di contenere tanto ingredienti tipici della storia d’amore quanto elementi assolutamente orrorifici, in un tripudio dell’antichissima ed eterna attrazione tra eros e tanatos riletta nella chiave di un grandioso e indimenticabile romanzo popolare.
Concepito, scritto e pubblicato in un’epoca già avvezza alla comunicazione per immagini, il romanzo ha una natura assolutamente “visiva”. Al punto che, in virtù anche del suo straordinario successo, fu del tutto ovvio il suo approdo al cinema. Che non fu immediato. Una storia così cupa e complessa, per quanto attraente e spudoratamente cinematografica, non era certo traducibile dal cinema dei pionieri, ma occorreva che la grammatica filmica fosse a uno stadio avanzato di maturazione. Questo fu possibile negli anni Venti, nel particolare e irripetibile contesto del grandioso espressionismo tedesco, il cui credo estetico sembrava costruito apposta per trasformare in film il romanzo di Stoker. In realtà, nonostante il matrimonio sembrasse scontato e necessario, non fu affatto semplice.
A realizzare l’impresa fu il genio di Murnau, che nel 1922 girò Nosferatu il vampiro (Nosferatu, eine Symphonie des Grauens), un capolavoro assoluto, pietra miliare imprescindibile dell’intera storia del cinema. Un film claustrofobico e terrificante, morboso e irresistibile, che oltre a toccare uno dei punti più alti dell’estetica espressionista seppe scrivere molti dei canoni futuri della rappresentazione cinematografica di Dracula e del mondo dei vampiri, nonché dell’intero genere horror. Ma, si diceva, il lavoro di Murnau fu tutt’altro che semplice. Non possedendo i diritti del romanzo di Bram Stoker, il regista fu costretto a cambiare i nomi dei personaggi (il conte Vlad, Dracula, divenne il conte Orlok, Mina divenne Ellen) e dei luoghi (da Londra ci si spostò a Wisborg). Simili escamotage servirono però a ben poco, visto che gli eredi di Stoker denunciarono comunque Murnau condannandolo a distruggere tutte le copie esistenti del film. Solo una, per fortuna, fu salvata clandestinamente dallo stesso Murnau, consentendo così al film di sopravvivere. Ad ogni modo il dado era tratto e la strada per l’inarrestabile epopea di Dracula al cinema, con buona pace degli eredi di Stoker, ormai aperta.
Sfruttando il successo di uno spettacolo teatrale – Dracula, di Hamilton Deane e John L. Balderston, basato proprio sul romanzo di Bram Stoker – andato a scena a Broadway nel 1927 con protagonista l’attore ungherese, naturalizzato americano, Bela Lugosi, la Universal Pictures decise di produrne un adattamento (stavolta acquistando regolarmente i diritti), affidando la sceneggiatura a Garrett Fort, la regia a Tod Browing e la parte principale, benché originariamente fossero stati scelti altri interpreti, allo stesso Lugosi. Proprio quest’ultima si rivelò la scelta decisiva. Benché Garrett, e soprattutto Browing, avessero ben presente il grande film di Murnau (alcune scene della loro versione – a partire da quella celeberrima in cui il notaio si ferisce al dito scatenando la sete del vampiro – non presenti in Stoker, sono chiaramente tratte da Nosferatu), il risultato fu decisamente diverso.
Browing puntò sull’horror nudo e crudo affondando a piene mani in ogni possibile topos del genere, soprattutto, rispetto a Murnau, spogliando la storia del vampiro dei molteplici piani di lettura che costituiscono la pellicola espressionista. Del ruolo centrale della natura, quasi una protagonista aggiunta, vista con occhio quasi romantica e permeata di continui rimandi simbolici, dell’essenziale natura erotica che sostiene i rapporti tra i personaggi principali (a partire da quello tra Nosferatu e Ellen/Mina), nonché del sottotesto sociale (la Transilvania come fuga nell’arcaismo, contro l’età ultramoderna della seconda rivoluzione industriale) e soprattutto di quello politico (il vampiro come simbolo metafisico dell’incombente dittatura nell’epoca incerta della repubblica di Weimar), nel Dracula di Browing non c’è traccia.
Il film prodotto dalla Universal si presenta così come una splendida e indimenticabile gemma di genere, senza implicazioni altre e che, paradossalmente, pur essendo il primo film ad accreditare ufficialmente la derivazione dal romanzo di Stoker, ne risulta infinitamente più lontano rispetto al capolavoro di Murnau. Infine, per quanto scritto e diretto (e fotografato) con indiscusse maestrie, la bellezza del film di Browing, e soprattutto le sue straordinarie fortuna e longevità sono dovute in gran parte alla strepitosa prova d’attore di Bela Lugosi, così eccelsa che quello dell’attore si sarebbe imposto all’istante come il volto ufficiale di Dracula nell’immaginario collettivo, un’autentica maschera – l’abito elegante, il mantello, i capelli all’indietro, il pallore del volto, i canini sporgenti – che per quanto poco affine al conte del romanzo divenne l’immagine universale e immortale del vampiro.
Il successo travolgente del film di Browing, decisamente al di là di ogni più rosea aspettativa, inaugurò una sorta di età dell’oro del genere horror, con la Universal in prima linea a sfruttarne a più non posso il successo commerciale. I personaggi più celebri, a partire proprio da Dracula, furono letteralmente spremuti, con la produzione a getto continuo, tra gli anni Trenta e Quaranta, di spin off a non finire, con protagonista il celebre vampiro, i suoi familiari, oppure fantasiosi crossover in cui Dracula veniva fatto incontrare con altri mostri: La figlia di Dracula, La casa degli orrori, Il cervello di Frankenstein, solo per citare i titoli più celebri. I risultati, andando avanti nel tempo, si fecero sempre più altalenanti e le pellicole sempre più raffazzonate, specie per quanto riguarda la scrittura.
Nel ruolo del conte Dracula si alternarono diversi attori, ma Bela Lugosi – che pure tornò a vestire i panni del vampiro in un’altra occasione – restò l’interprete per eccellenza, al punto da restare intrappolato nella maschera da lui stesso creato. Purtroppo, non parliamo semplicemente della normale difficoltà di un attore a trovare credibilità e nuova linfa artistica al di fuori del suo personaggio più celebre, ma di un vero e proprio dissesto, artistico e psichico, che colse e travolse Lugosi, fino a fargli trascorrere i suoi ultimi anni in un assoluto e tristissimo declino, nonché in un’identificazione ai limiti del patologico con il conte.
Una vicenda amara che contribuì, e non poco, ad accrescere la leggenda sulla “maledizione” che aleggerebbe attorno, e addosso, agli interpreti di Dracula. Su Max Schreck, interprete del Nosferatu di Murnau, aleggiano le più cupe e fosche leggende, compresa la storia che lo vorrebbe non umano, vero e proprio vampiro. Entrambi, Schreck e Lugosi, sono stati a loro volta oggetto di bellissimi film: L’ombra del vampiro di Merhige, che racconta le vicende legate al leggendario set di Murnau, e l’indimenticabile Ed Wood di Tim Burton, dove nel racconto della biografia del più stravagante regista della storia, trovano un posto d’eccezione gli ultimi anni di vita di Lugosi.
Dopo un decennio di crisi, l’horror tornò a conoscere una nuova fortunatissima esplosione sul finire degli anni Cinquanta. Un rilancio che stavolta vide in prima linea la casa di produzione Hammer e in cui giocò un ruolo chiave il “ripescaggio” dei vecchi classici, a partire proprio da Dracula. Nel 1958 uscì nelle sale una nuova pietra miliare dell’horror (e non solo): Dracula il vampiro, diretto da Terence Fisher e con un nuovo straordinario interprete, Christopher Lee, destinato a sua volta a diventare icona del genere. Rispetto a Lugosi, Lee diede di Dracula un’immagine meno romantica, meno solitaria e tormentata, ma più feroce, violenta e aggressiva. Più demone che fantasma.
Anche in questo caso, il successo fu così clamoroso da spingere la Hammer a produrre una serie di spin off che, come già successo alle pellicole della Universal, persero via via qualità (e credibilità): Le spose di Dracula, Le amanti di Dracula, Il marchio di Dracula, ancora per limitarci ai titoli più noti, tutti intepretati da Christopher Lee. La serialità e il sovrasfruttamento del plot incisero negativamente anche nella recitazione di Lee, che finì per essere ripetitiva e inflazionata. Il che contribuì, indirettamente ma in maniera decisiva, a preservare il mito di Lugosi e la sua maschera come volto per eccellenza di Dracula.
Tutto questo, all’inizio degli anni Settanta, portò a un nuovo e inevitabile declino non tanto del genere horror, ma dei personaggi storici e dei prodotti seriali. Ma a fine decennio, nel 1979, uno dei principali esponenti del cosiddetto Nuovo Cinema Tedesco, Werner Herzog, portò al cinema il remake del film di Murnau, ritenuto – a ragione – il massimo film su Dracula mai realizzato. Il progetto era anche funzionale a rimettere in fila la storia del cinema tedesco, stabilendo una sorte di ponte tra l’espressionismo e il Nuovo Cinema. Il risultato fu un altro capolavoro, che al di là delle affinità tra i due registi e i due movimenti andò a recuperare molti di quegli elementi che i film più commerciali avevano del tutto accantonato, soprattutto per quanto concerne la componente erotica dei rapporti tra i personaggi e la funzione “attiva” di luoghi e paesaggi.
A dir poco stellare il cast messo insieme da Herzog: uno strepitoso Klaus Kinski nella parte di Dracula, una splendida e conturbante Isabelle Adjani nel ruolo di Lucy (Herzog, non avendo problemi di diritti, a differenza di Murnau ripristinò i nomi originari salvo, chissà perché, invertire i nomi dei personaggi di Mina e Lucy) e un monumentale Bruno Ganz nel ruolo di Jonathan Harker. Ancora una volta le straordinarie performances degli attori ebbero un ruolo tutt’altro che secondario nel successo del film, che riuscì a trovare un grandioso punto di equilibrio tra cinema d’autore e pellicola di consumo. Il cerchio poteva dirsi chiuso, eppure nessuna delle numerose opere cinematografiche in questione poteva rivendicare, per un motivo o per un altro, una sostanziale aderenza con il romanzo di Stoker. Murnau, Herzog, Browing, Fisher e via via tutti gli altri registi, avevano infatti usato il romanzo come base su cui operare con la massima libertà.
Per questo quando Francis Ford Coppola, all’inizio degli anni Novanta, decise di lanciarsi nell’ennesima trasposizione filmica della storia del vampiro più famoso del mondo, andò a colmare proprio quello spazio lasciato libero sin lì, vale a dire una pellicola che in primis andasse a ricalcare il capolavoro narrativo di Bram Stoker con correttezza (quasi) filologica. Il titolo del film di Coppola, uscito nel 1992, è in questo senso quanto mai eloquente: Dracula di Bram Stoker.
Il film, che ha il respiro del colossal, grandioso e magniloquente, del romanzo recupera anzitutto la maestosità narrativa e stilistica. Con un cast ovviamente incredibile – Gary Oldham nel ruolo di un Dracula mai così affascinante, la splendida Winona Ryder nel ruolo di Mina, Keanu Reeves in quello di Harker e uno straordinario Anthony Hopkins nei panni del cacciavampiri Van Helsing – la pellicola rispetta le intenzioni ponendosi come l’opera cinematografica in assoluto più fedele al libro, di cui restituisce non solo la grandeur, ma anche la commistione indissolubile tra eros e tanatos, spingendo tanto sul versante dell’orrore quanto su quello del romanticismo. Eppure, per arrivare a tutto questo, Coppola (e lo sceneggiatore Hart) compie una trasgressione gigantesca, inserendo una sottotrama del tutto decisiva nell’economia del film, ma del tutto assente nel romanzo di Stoker, vale a dire la storia secondo cui Mina sarebbe la reincarnazione di Elisabeta, moglie del principe Vlad prima della “conversione” al male e della trasformazione in vampiro.
C’è così “tanto” e così “tutto” nel film di Coppola che, benché il mito del personaggio non sia mai tramontato, dopo l’opera del 1992 non troviamo più pellicole degne di note. Il filone dei vampiri si è arricchito di moltissimi altri titoli, alcuni di valore e altri – la maggior parte – decisamente discutibili e ben poco memorabili, ma il personaggio di Dracula conta solo qualche sporadica apparizione, tra parodie e ossequiose citazioni.
Ma la parola fine non è proprio il caso di scriverla.
Dracula è uno di quei personaggi immortali – e non nel senso del vampiro “non morto”, destinati a ritornare ciclicamente e altrettanto ciclicamente a portare nuova linfa vitale ad altri capolavori. Come disse Boris Karloff, storico interprete di Frankenstein ai tempi d’oro della Universal, al funerale di Bela Lugosi: “tanto non sarà mai morto finché qualcuno non gli pianterà un paletto di frassino nel cuore”.
Ma forse Karloff questa frase non la pronunciò mai e si tratta soltanto di una leggenda.
Ma la realtà è così noiosa…
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