In principio Il silenzio degli innocenti (The Silence of The Lambs) fu uno splendido romanzo dello scrittore e giornalista Thomas Harris, uscito nel 1988 (nel 1989 in edizione italiana) come secondo libro, preceduto da Il delitto della terza luna (Red Dragon, 1981) e seguito da Hannibal (id., 1999), di una trilogia thriller incentrata sul mondo perverso e morboso dei serial killer e che vede, in tutti e tre gli episodi, comparire il celebre Hannibal Lecter, con un ruolo via via sempre più importante e centrale: da essere figura marginale (ma di cui si intuisce già il fascino malefico e la genialità folle, e quindi l’immenso potenziale narrativo) nel primo romanzo, diventa determinante nel secondo fino a farsi nell’ultimo protagonista assoluto.

Lo scrittore Thomas Harris

Tra tutti i capitoli della saga, Il silenzio degli innocenti è il romanzo con la trama più scarna ed essenziale. E forse proprio per questo il più efficace. In estrema sintesi: l’FBI non riesce a catturare un terribile serial killer detto Buffalo Bill, che uccide, dopo averle seviziate, giovani donne per poi scuoiarle. L’indagine viene affidata a una giovane recluta, Clarice Sterling, tormentata dal ricordo del padre. Per risolvere l’indagine la ragazza dovrà fare riferimento a un altro pazzo serial killer, l’ex psichiatra Hannibal Lecter, detenuto in un penitenziario di massima sicurezza per aver divorato un numero imprecisato di vittime.Lo stile di Harris, teso, rapido e asciutto, tocca il suo culmine proprio in questo romanzo. L’azione è perfettamente bilanciata con i momenti di introspezione psicologica, che mai come in questo caso sono a tutti gli effetti passaggi non di stasi, ma di autentico dinamismo narrativo, visto che proprio la doppia indagine psicologica, quella di Clarice su Buffalo Bill (e su Hannibal), e quella di Hannibal su Clarice, ha il compito di far procedere in avanti la storia. Così come perfettamente bilanciati risultano le digressioni sul passato dei personaggi, mai fini a loro stessi e sempre del tutto funzionali allo svelamento dell’intreccio, e il normale procedere della storia, che si risolve in un deliberato attacco alle coronarie del lettore, tesa, inquietante, emozionante e spaventosissima. Una perfezione dove tutti gli elementi, e soprattutto dove tutte le sottotrame, compresi i vissuti passati dei singoli personaggi, a partire da quello di Clarice, si fondono risultando in egual misura indispensabili. Il tormento di Clarice, le grida degli agnelli scannati che la accompagnano come un incubo dalla sua infanzia (da qui il titolo originale che nell’edizione italiana è stato cambiato preferendo «innocenti» ad «agnelli», a quanto pare per non creare equivoci con la nota famiglia di imprenditori torinesi), è al tempo stesso giustificazione della strada intrapresa dalla giovanissima, nonché chiave per la sua sensibilità così preposta a entrare in comunicazione con Lecter. Nonché a scoprire l’identità di Buffalo Bill. 

Il meritatissimo successo internazionale del libro fece sì che il progetto di trasformarlo in un film si concretizzasse nell’immediato. Il cast di attori assolutamente di prim’ordine: Scott Glenn nel ruolo del capo dell’unità di scienze comportamentali Jack Crawford, ma soprattutto Jodie Foster nella parte di Clarice Sterling e Anthony Hopkins in quella di Hannibal Lecter. 

Per copione e direzione furono invece fatte scelte all’apparenza azzardate. La sceneggiatura fu affidata a Ted Tally, di fatto esordiente (prima di allora aveva scritto solo un altro copione e di tutt’altro genere), mentre per la regia fu scelto Jonathan Demme, artista di lungo corso ma che non aveva mai diretto un thriller. 
Ma entrambe si rivelarono le migliori scelte possibili. 

Tally ebbe in primis il merito di non stravolgere in alcun modo il plot del romanzo di Harris, lasciando invariate tutte le linee narrative, salvo comprimere lo svolgimento rendendolo funzionale al ritmo cinematografico. Ma soprattutto, ben conscio degli attori giganteschi che avrebbero interpretato quei personaggi, lo sceneggiatore seppe approntare un copione che lasciava agli interpreti un certo margine di invenzione. Così, soprattutto Hopkins, aggiunse una serie di particolari ai suoi monologhi e al suo personaggio destinati a diventare leggendari, a partire dal terrificante risucchio a denti stretti fatto dopo aver raccontato a Clarice di aver divorato il fegato di una sua vittima. Così come era del tutto improvvisata l’allusione alle origini contadine di Clarice, provocando la celebre reazione sdegnata di Jodie Foster, anch’essa non prevista dal copione. 

Alla grandiosa lucidità di scrittura e alla gigantesca interpretazione degli attori, si aggiunge una regia splendida, chirurgica, indimenticabile. E se quello di Harris è un grandissimo romanzo, il film va decisamente oltre. In poche parole, il film è il thriller perfetto. 
Assolutamente perfetto. 

Jonathan Demme

La base è quanto mai classica, ennesima variazione sul tema di uno dei topoi narrativi più sfruttati dal genere thriller sin dai suoi albori: il cosiddetto «Last Minute Rescue», ovvero quell’intreccio in cui il protagonista si trova intrappolato in qualche luogo o in qualche situazione da cui è quasi impossibile uscire. A complicare la situazione, la scarsa o nulla esperienza dello stesso protagonista in luoghi o situazioni simili. Il tutto – Hitchcock docet – accompagnato da un countdown mozzafiato che scandisce il tempo (sempre pochissimo) che resta prima della catastrofe e della morte dell’eroe. Che ovviamente si salva, sempre o quasi, all’ultimo secondo.  

Ne Il silenzio degli innocenti Jonathan Demme usa il topos in una variante altrettanto consueta, vale a dire l’espediente della prigionia. E del prigioniero. Nel senso che non è il protagonista in pericolo di vita, ma un’altra persona, in questo caso la potenziale ennesima vittima del feroce e sadico Buffalo Bill, con il tempo che le resta da vivere prima dell’esecuzione che si riduce sempre più, così come quello a disposizione dell’eroe, in questo caso Clarice, prima di arrivare a salvarla. Con una situazione tipo così forte e codificata a fare da tappeto narrativo, il regista costruisce un’architettura filmica capace di portare il gioco della suspense alle estreme conseguenze, con un ritmo e un’alternanza di sequenze al cardiopalma, in un crescendo a dir poco insostenibile. 

Ma per quanto la suspense sia il vero quid del thriller, il suo solo e semplice moltiplicarsi non basta. Anzi, se così fosse tutto si annacquerebbe in un pastone adrenalinico di violenze ed effetti fini a se stessi, mentre il thriller è un sottile gioco di equilibri tra contrari, dove la necessaria evidenza della realtà esperibile deve accompagnarsi all’inquietudine dell’inspiegabile, e dove l’azione sincopata deve nascondere riflessioni altre di ampio respiro esistenziale. E la grandezza del film non è soltanto quella di raggiungere questo equilibrio alla perfezione, ma di giocarci, con questo e con tutti i topoi del thriller messi sapientemente in fila. E, giocandoci, reinventarli in maniera sapiente e mai banale. 

A partire dalla natura della protagonista, che non è solo una donna in un mondo, quello dell’FBI e quello, metafilmico e metaletterario, del genere crime (quanto meno del genere crime nel 1991), abitato esclusivamente da maschi, ma è anche e soprattutto una recluta, un’apprendista agente. Il che da un lato genera immediata empatia nello spettatore, dall’altro propone l’eroe che non ti aspetti, totalmente al di fuori dello stereotipo. Questo è già presente nel romanzo, ma la grandezza di Demme nel dirigere gli attori lo accentua senza esasperarlo, dando vita a un personaggio, quello di Clarice, capace di essere al tempo stesso totalmente al di fuori del genere e prototipo del genere di lì in poi. 

Il gioco raddoppia con l’ingresso di Lecter. L’indimenticabile maschera creata da Hopkins è probabilmente la migliore e più terrificante icona del serial killer nella storia del cinema thriller. Un serial killer al cubo quindi, che però ci spiazza, ci manda fuori asse e, con noi, manda fuori asse tutte le regole del genere. Accettando di collaborare con Clarice, in cambio delle confidenze della ragazza sul suo passato inquieto e tormentato, egli di fatto esce dalla funzione di antagonista ed entra in quella di aiutante. Certo un aiutante con cui la protagonista stabilisce un rapporto oscuro, inquietante, morboso, ma è un’affinità elettiva indiscutibile e trascinante, a suo modo irresistibile. Lecter aiuta Clarice non soltanto a trovare Buffalo Bill, ma soprattutto a trovare se stessa. Della ragazza, rappresenta l’ombra, il lato oscuro, che nel suo percorso di crescita, poiché Il silenzio degli innocenti è anche il romanzo di formazione di Clarice, dovrà imparare a pettinarla, ad addomesticarla. Solo in questo modo potrà lasciare i suoi fantasmi alle spalle, le grida degli agnelli diverranno silenzio e lei potrà finalmente diventare adulta. Così Lecter, pur essendo totalmente al di fuori dello stereotipo, porta la protagonista – e l’intera narrazione – su una strada d’indagine al tempo stesso poliziesca ed esistenziale. Ovvero, uscendo dal genere, arriva alla perfezione del genere.  

Altro espediente da manuale del genere è quello, sapientemente seguito tanto dalla sceneggiatura quanto dalla regia, di usare per tutto il primo atto il punto di vista della protagonista, per poi virare bruscamente su quello del serial killer. Il thriller, a differenza del poliziesco puro, prevede che lettori e spettatori abbiano il vantaggio di sapere sin da subito (o quasi) il nome (e soprattutto il volto, se parliamo di cinema) dell’assassino. È indispensabile, affinché il gioco del genere funzioni, che lo spettatore conosca di conseguenza l’entità del pericolo che corre il protagonista. 

Ma se l’alternanza tra il punto di vista dell’eroe e dell’antagonista, insistita per l’intero secondo atto del film, è quanto di più canonico possa esistere, il colpo di genio di Demme è porre fino a questo percorso parallelo facendo coincidere i due punti di vista. 
E lo fa attraverso una sequenza a dir poco leggendaria. 

Clarice, mentre è impegnata in un sopralluogo di prassi, riceve dai colleghi la notizia che l’abitazione del serial killer è stata individuata e una squadra speciale la sta circondando. Il montaggio ci porta subito in loco, a decine di chilometri di distanza da Clarice, dove la polizia si prepara a fare irruzione e ad ammanettare l’assassino. Mostrandoci contemporaneamente, in una splendida alternanza, i movimenti di Buffalo Bill in casa, che a quel punto noi siamo convinti essere quella circondata dall’FBI. 

Ma, proprio a questo punto, ecco il colpo di scena che non ti aspetti, che manda all’aria ogni cosa. Comprese le coronarie dello spettatore. La casa in cui fanno irruzione gli agenti è vuota. Ergo, prima ancora che il montaggio ce lo sveli, scopriamo che la casa in cui si muove Buffalo Bill non può che essere quella dove si trova Clarice. Che con tutti gli agenti dirottati nel luogo sbagliato, dovrà combattere la battaglia decisiva contro il killer da sola.    

Ed è, la battaglia finale, che si svolge ovviamente al buio, ovvero in un luogo che conosciamo ma che si fa di colpo oscuro, in cui convivono luce e ombra, come nell’anima di Clarice. L’ennesima sequenza destinata a entrare nella storia del cinema. Ribaltando la consuetudine, Demme fa coincidere lo sguardo dello spettatore con quello di Buffalo Bill, che dotato di un dispositivo a infrarossi, riesce a vedere nel buio. La frustrazione dello spettatore, che vede l’agonia di Clarice con sgomento ma soprattutto con gli occhi allucinati e sadici del killer. Un’agonia che termina d’improvviso, con Clarice che sconfigge Buffalo con un colpo d’istinto, proprio lei, tutta scienza e raziocinio. È la conclusione perfetta di un film perfetto, la fine del viaggio interiore e dell’indagine poliziesca, l’equilibrio supremo tra visibile e invisibile. L’ingresso e l’uscita dal genere per un film che lo ha riscritto, il genere. 

Inevitabile e sacrosanta pioggia di Oscar. 
Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura, Miglior Montaggio, Miglior Sonoro, Miglior Attrice Protagonista a Judie Foster e Miglior Attore Protagonista a Anthony Hopkins (presente sullo schermo per soli ventiquattro indimenticabili minuti). 

E un posto d’onore nella storia del cinema. 

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