Pubblichiamo questo capitolo dedicato a Hollywood, il grande amore di Sergio Sollima, che ne ha indirizzato la carriera, tratto dal suo saggio Il cinema in U.S.A. Roma, AVE-Anonima Veritas Editrice, Roma, 1947, (pp. 225-233)
“La storia dell’arte cinematografica in questo primo mezzo secolo di esistenza non è altro che la storia della lotta di alcuni veri artisti per una reale libertà espressiva contro tutte le costrizioni esteriori, per loro tanto più numerose e violente che per ogni altro artista.
Questo dovunque, ma in America in modo particolare.
Considerata dal punto di vista estetico la storia del cinema americano può venir divisa in due periodi fondamentali: il primo, che potrebbe essere definito «delle esplorazioni» e che va dalla nascita fino agli anni del sonoro e della crisi mondiale, cioè alla sua affermazione come grande industria internazionale, ed il secondo, o «dello sfruttamento», che dura tuttora.
Sono gli stessi, dopotutto, della formazione della Repubblica Stellata: le immigrazioni singole e collettive verso l’Ovest da parte di pionieri e la successiva valorizzazione, o meglio il successivo sfruttamento da parte di certi strati della stessa generazione pioniera e soprattutto della generazione seguente.
Nel primo periodo ogni film era veramente un’esplorazione in una terra ignora e dava possibilità di scoperte meravigliose.
Fondamentale fu allora il contributo americano alla storia del cinema.
Come è documentato, Edwin S. Porter fu il primo, nell’anno 1900, ad usare il « primo piano », o, per essere esatti, il « particolare » nel suo Life of an American Fireman. Egli fu anche il primo, nello stesso film, a concepire il montaggio, mostrando le scene della madre e del bambino in pericolo, alternate con quelle dei pompieri che corrono al soccorso.
Queste due decisive scoperte, unite alla impostazione del genere western e avventuroso (The Great Train Robbery), fanno di Porter una personalità di primissimo ordine ed uno dei padri ufficiali del cinematografo.
Il western, sviluppato poi da William Selig e da Thomas Ince divenne non solo il genere più caratteristico della produzione americana, ma addirittura il suo sottofondo ineliminabile. La maggioranza dei grandi registi, come abbiamo visto, si formò alla scuola del western, da Vidor a Ford, da William Wellman a Jack Conway, da Borzage a Van Dyke.
L’altro genere tipico offerto dalla cinematografia americana fu quello comico o, per essere più precisi, quello slapstick, dovuto, come sappiamo, a Mack Sennett.
Il western e lo slapstick sono evidentemente due derivazioni di una medesima esigenza, fondamentale nello spirito yankee: quella del movimento, dall’attivismo a qualsiasi costo, anche fine a sé stesso.
Questa esigenza del movimento e quella del grandioso, del colossale, sono presenti in un altro padre del cinema: David Wark Griffith.
Griffith raccoglie le esperienze europee ma sa assorbirle e filtrarle attraverso la sua natura di americano e la sua personalità di uomo nuovo.
Anche tecnicamente la sua opera è ricca di scoperte importanti. Basterà ricordare il famoso « finale alla Griffith » che si riallaccia sicuramente alla trovata di Porter, ma che egli perfezionò al punto da poterne essere considerato legittimamente come l’autore; l’alternare cioè in rapido montaggio scene di una crisi ed altre di un qualche cosa che questa crisi deve risolvere; esempio tipico, la fanciulla assediata dai banditi e l’eroe che corre per salvarla, oppure una condanna a morte che sta per essere eseguita e la grazia che sta arrivando. In parole povere è il buon, vecchio, «ecco i nostri!» che ha sempre il potere di destare in platea una certa agitazione.
Ma il contributo maggiore alla storia del cinema à stato dato da due figure grandiose che, se le graduatorie in questo campo non fossero piuttosto arbitrarie, potrebbero venire definite le più complete: Charles Chaplin ed Erich von Stroheim. In ogni caso (è tempo che la cultura ufficiale se ne renda conto) essi hanno il loro posto fra le personalità più alte dell’arte contemporanea.
Le opere di questi due artisti, che offrono moltissimi punto di contatto sono due blocchi compatti, privi, o quasi, di pezzi superflui.
Essi hanno in comune la tendenza ad esprimere un mondo, un ambiente ben preciso, gravitante intorno ad un personaggio al quale essi stessi dànno vita come attori di insuperata potenza. Come metodo di lavoro tendo ad accentrare nelle loro mani e nel loro cervello il maggior numero possibile di funzioni, offrendo due esempi, rari in cinema, di autore unico.
Comune ad ambedue è il senso sociale, più cosciente e polemico in Chaplin, più violento in Stroheim. Ed ancora, essi presentano tali caratteristiche di originalità da non aver avuto, finora, dei discepoli e nemmeno degli imitatori.
Le circostanze concessero tuttavia all’artista inglese maggiori possibilità di espressione, mediante una sua produzione indipendente. Il grande austriaco, invece, costituisce uno degli esempi più dolorosi della difficoltà enormi che i poeti del cinema debbono superare per la realizzazione delle proprie idee in una società some quella americana.
Che un uomo come Stroheim debba oggi essere ridotto ad interpretare parti di secondo piano in film idioti, e organizzazioni cinematografiche che spendono milioni di dollari per produrre quei film ed altri, o anche più idioti, non vogliano dargli ancora una volta la possibilità di lavorare, è un fatto che non può non spingere a considerazioni piuttosto pessimistiche.
Non vi sono state, e non vi sono, in America altre personalità cinematografiche che possano reggere al confronto di Chaplin e di Stroheim.
Esistono però dei veri artisti, la cui carriera, seppure seminata qua e là di episodi inutili, offre un cospicuo numero di opere di grande valore.
King Vidor e John Ford, in prima linea; ambedue americani puro sangue, anche essi accomunati da una profonda sensibilità sociale.
Vi è poi un gruppo di ottimi registi ai quali si devono film di qualità superiore e che hanno influenzato profondamente la produzione americana ed anche mondiale, come Frank Capra, ad esempio, autore del bellissimo Proibito e di quel Accadde una notte sulla cui falsariga anche oggi vengono realizzati innumerevoli film; Frank Borzage, Van Dyke, von Sternberg (il cui capolavoro L’angelo azzurro è stato però realizzato in Germania), Ernst Lubitsch ed anche, su di un piano di maggiori concessioni commerciali, Leo McCarey, Gregory La Cava, Lewis Milestone, Howard Hawks, Cecil B. DeMille, William Wyler, Clarence Brown, Jack Conway, William Keighley, Michael Curtiz, Victor Fleming, Alfred Hitchcock, Archie Mayo, William Dieterle, ognuno dei quali ha al suo attivo qualche fortunato incontro con un soggetto, un attore, un produttore o che so io, con il risultato comunque di fare del buon cinema.
Anche molti registi stranieri, come abbiamo visto, contribuiscono, ed in una maniera molto energica ad elevare il livello artistico del cinema americano con maggiore o minore fortuna come Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang, Victor Sjöström, Mauritz Stiller, Paul Leni, e Jean Renoir.
Con l’avvento del sonoro, altro contributo all’evoluzione del cinema, e con la sistemazione dell’industria cinematografica come grande industria nazionale (allora era la quarta) e internazionale cominciò ad indebolirsi quell’intima energia e quella ricerca continua che riempivano ogni film di nuove scoperte.
La data del sonoro, che io ho indicato come punto di riferimento per la divisione fra i due periodi, non deve trarre in inganno nessuno. L’influenza del sonoro nell’evoluzione del cinema non può essere che positiva, come quella del colore e di tutti gli altri perfezionamenti tecnici che potranno venire in seguito. La vera crisi del cinema americano (come, in misura minore, degli altri paesi) è cominciata quando i mezzi di produzione sono passati dalle mani degli artisti a quelle degli industriali e, peggio ancora, dei commercianti, ossia degli esercenti, i cui interessi, come ho già detto e come è ovvio, sono esclusivamente speculativi.
Si è verificato insomma questo, che i film che noi vediamo non sono fatti da un artista o da un gruppo di artisti ma praticamente «fatti» da noi stessi e non in qualità di uomini ma di biglietto di ingresso. Voglio dire insomma che il «perché» di quello che è il film, il soggetto, la scelta degli attori, il dialogo, la fotografia, ecc. non è retto dalla logica fantastica di uno o di più autori, non è motivato dalla sua o loro sensibilità, ma solo dalla probabilità che esso offre di convincere il più gran numero possibile di persone a sborsare una certa somma per vederlo.
Tutto, ripeto, nella produzione media americana (che, come abbiamo visto, presenta solo rarissime eccezioni) è fatto per lo spettatore-biglietto d’ingresso: i soggetti: amore, lieto fine obbligatorio, ecc.; la scelta degli attori: tutti bellissimi, pubblicizzati al massimo affinché chi li ha visti una volta torni a vederli; le sceneggiature e i dialoghi, che puntano esclusivamente sull’interesse superficiale e sul divertimento epidermico; la fotografia, la scenografia e gli abiti che diano sempre la sensazione del ben messo, del piacevole, del ben visibile, o dello stirato da poco.
Evidentemente, a prescindere dalle conseguenze in sede sociale e morale, questo criterio di lavoro mina alla base ogni tentativo artistico, sposta il mezzo cinematografico su di un piano che gli è, per natura, totalmente estraneo.
Il sonoro, dunque, innestatosi in questa situazione divenne inevitabilmente un fatto negativo per il semplice motivo che non fu «un mezzo in più» per l’artista, ma « un mezzo in più » per lo speculatore.
Quando invece le particolari condizioni permisero il sorgere di eccezioni queste si chiamarono, per rimanere ai primi anni del grande cambiamento, Hallelujah, per esempio, o Tabù o All’Ovest niente di nuovo o Nostro pane quotidiano.
Un altro possibile equivoco da chiarire è il credere nocivo, dato il carattere artistico del cinematografo, un suo intenso sviluppo industriale. Al contrario invece, l’attrezzatura industriale non sarà mai abbastanza sviluppata e perfezionata. Ma è l’industria che deve servire il film e non il film l’industria, cioè, insisto, l’attrezzatura industriale deve essere a disposizione di chi «fa» il film.
Questa attrezzatura industriale americana è, come tutti sanno, al giorno d’oggi la più completa e consente di lavorare nelle migliori condizioni.
Le due fasi della lavorazione di un film nelle quali gli americani eccellono sono la sceneggiatura e la recitazione, questa seconda in particolar modo.
Fra gli sceneggiatori migliori ricordo: Ben Hecht, Charles MacArthur, Robert Riskin, Dudley Nichols, Waldemar Young, Harry Behn, Frances Marion, Salka Viertel, Ernest Vajda, Jo Swerling, Morrie Ryskind, Bella e Samuel Spewack, John Emerson, Anita Loos oltre a noti scrittori come James Hilton, John Dos Passos, Clifford Odets, Bert Brecht, Aldous Huxley.
Ma in genere, il livello di tutti i tecnici è molto elevato. Ricordo fra gli operatori: William Daniels, Lee Garmes, Gregg Toland, Victor Milner, Clyde De Vinna, Tony Gaudio, Bert Glennon, Sol Polito, Hal Rosson, Karl Freund; fra gli scenografi Cedric Gibbons, Max Ree, Hans Dreier; fra i figurinisti: Adrian, Travis Banton, Dolly Tree, Irene.
Un altro settore in cui gli americani sono specializzati, fino al punto di aver creato un vero monopolio, è quello dei disegni animati.
Qui incontriamo la sola figura che potrebbe non sfigurare accanto a Stroheim e Chaplin, ossia Walt Disney. A questo notevolissimo artista del nostro secolo va riconosciuto fra l’altro il merito di una continua ricerca di perfezionamento dei propri mezzi espressivi della propria tecnica. Basterà confrontare, per averne un’idea i suoi primi cortimetraggi con Mickey Mouse agli ultimi: Saludos Amigos o Tre caballeros.
Notevolissima anche l’attività dei fratelli Fleischer, creatori di Popeje, di Betty Boop e del bel lungometraggio Gulliver’s Travels.
Quanto agli attori, a parte il problema del divismo, essi costituiscono la forza maggiore del cinema americano. La grande affluenza di aspiranti che permette una selezione accuratissima, la distribuzione sempre intelligente, il perfetto ingranaggio delle altre rotelle (sceneggiatura, dialogo, fotografia, ecc.) e la naturale disinvoltura di un popolo sano, avvezzo allo sport e fornito di un certo grado di maturità democratica, sono le cause principali questa forza che, insieme alla sceneggiatura, come ho detto, è la maggiore di Hollywood, quella che rende i suoi film di ultima categoria indubbiamente superiori a quelli similari delle altre cinematografie.
Quanto agli ultimi anni, debutti notevoli di uomini di cinema ve ne sono stati, ma a parte il caso di Orson Welles, forse, nulla più che notevoli. Si parla assai bene di The Great McGinty di Preston Sturges, uno sceneggiatore regista produttore al cui passivo per altro vanno segnati film molto brutti tipo The Lady Eve (Lady Eva) e Christmas in July.
The Great McGinty ha vinto un premio per la migliore sceneggiatura ed è interpretato da Brian Donlevy, Muriel Angelus, Steffi Duna ed Akim Tamiroff. Un ottimo regista si è rivelato il giovane Billy Wilder, autore fra l’altro di un The Major and the Minor (Frutto proibito) con Ginger Rogers e Ray Milland niente più che divertente, e soprattutto di Double Indemnity da L’assicuratore di James Cain, interpretato da Barbara Stanwyck, Fred MacMurray, che vi rivela una potenza finora insospettabile ed Edward G. Robinson. Un pezzo di cinema insomma di prima qualità, come anche il premiato The Lost Weekend.
Per incarico del Dipartimento dell’Agricoltura, Robert Flaherty ha girato nel 1941 un documentario, dicono e non è difficile crederlo, di grande bellezza, The Land (ossia Terra). Sembra però che sia risultato, un po’ troppo documentario nei riguardi delle condizioni del paese e dei lavoratori della terra, tanto da preoccupare le autorità interessate, le quali hanno provvisto a limitare rigorosamente le proiezioni del film.
Ma a parte la scarsezza di opere d’eccezione, è possibile notare nella produzione un duplice movimento, discendente ed uno timidamente ascendente.
È innegabile, infatti, una chiara decadenza del prodotto medio. Quella macchina quasi perfetta, quell’orologio di precisione che era il film medio americano ha dei disturbi, dei guasti. I film divertenti non divertono più come prima, quelli emozionanti non emozionano più come prima, quelli commoventi non commuovono più come prima. Questo avviene per due motivi: almeno in Europa, la maturità dello spettatore ha subito delle evoluzioni profonde, primo, e, secondo, si verifica un normale fenomeno di sovraproduzione.
Dopo alcuni anni, che la General Motors, per esempio, costruisce un certo tipo di automobile lo sostituisce con un altro. Dopo 12 anni di giallo-rosa, per esempio, dal tempo de L’uomo ombra, anno 1934, ogni individuo normale ha diritto al suo mal di stomaco. È evidente, insomma, un certa riluttanza da parte degli uomini di cinema responsabili a cambiare idee e metodi. Con la conseguenza che il tessuto troppo usato svela la trama anche ai miopi.
D’altro canto, però è, meno facilmente, ma certamente avvertibile un certo sentore di aria nuova. È per ora una sensazione; giustificata solo da alcune sequenze, da una battuta, dal modo di risolvere una certa situazione, da una certa faccia nuova di attore e, se vogliamo, da un avvicinamento più cordiale alla migliore letteratura americana, la cui complessiva posizione, artistica e sociale sembrava renderla finora piuttosto lontana dagli interessi dei signori del cinema. E’ la realtà che comincia a fare il suo ingresso in quella specie di isola sperduta, in quella tenace fabbrica di sogni che è Hollywood. Ed i milioni di GIs che hanno fatto la guerra completeranno l’opera.
Hollywood è oggi la più attrezzala officina cinematografica del mondo. I lavoratori del cinema possono avere tutto a disposizione; sono nelle migliori condizioni per rinnovare l’eterno miracolo della creazione di un’opera d’arte. Ma ancora oggi agli artisti è proibito l’ingresso in questa officina e viene reso loro quasi impossibile l’uso della materia da adoperare. Se questo stato di cose cambierà o meno lo sapremo dalla storia degli Stati Uniti degli anni avvenire”.
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