Presentato in concorso al Festival di Cannes del 1976, L’inquilino del terzo piano (Le Locataire, 1976) ricevette un’accoglienza piuttosto fredda e il suo riscontro commerciale fu deludente. Il film ha ricevuto una sola nomination ai César (per le sontuose scenografie di Pierre Guffroy), riscattandosi però con il passare del tempo: oggi è considerato uno dei film più riusciti di Polanski per la sua atmosfera opprimente e l’atmosfera kafkiana che ne fanno un’opera efficace e di grande ricchezza tematica e visiva. L’umile impiegato Trelkovsky (interpretato dallo stesso Polanski che – curiosità – doppiò se stesso anche nella versione italiana), di origine ebrea polacca, lavora in un servizio di archivio e ha difficoltà a fare amicizia con i suoi colleghi. Visita un appartamento vuoto in un quartiere popolare di Parigi e la portinaia gli racconta che la precedente inquilina si è gettata dalla finestra qualche giorno prima. Trelkovsky si trasferisce nell’appartamento. La suicida sta morendo in ospedale e il giovane va a trovarla. Al suo capezzale incontra Stella (Isabelle Adjani, bella in modo indescrivibile), un’amica della morente, che risponde alle loro domande con un ululato lungo e straziante. Trelkovsky è timido, schivo ma i vicini lo accusano di fare troppo rumore: il destino dello sfortunato inquilino è segnato da questa persecuzione, che lo condurrà a una terribile fine…

Adattato dal romanzo L’inquilino stregato (Le locataire chimérique)  di Roland Topor e scritto in collaborazione con lo sceneggiatore Gérard Brach, è il primo grande film francese di Roman Polanski anche se in realtà si tratta di una coproduzione in parte americana. Ma il team artistico e tecnico è esclusivamente francese, ad eccezione del direttore della fotografia Sven Nvykvist – il geniale svedese il cui apporto è decisivo per il film – e di tre attori americani doppiati. Insieme a Repulsione e Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano potrebbe formare una trilogia di reclusione: l’appartamento del film richiama da vicino la claustrofobia dell’alloggio all’origine della schizofrenia di Catherine Deneuve e l’inquietudine della casa in cui Mia Farrow era preda di allucinazioni diaboliche. L’apparente normalità delle ambientazioni – sia degli interni che degli esterni – e le musiche accattivanti di Philippe Sarde, fanno risaltare ancora di più l’atmosfera strana e opprimente della storia. L’assurdità kafkiana dell’intero scenario è stemperata dall’apparente normalità dei personaggi e della narrazione, e da un umorismo che nasce da una situazione comica, così come dall’enormità di certi passaggi (l’incredibile epilogo!).

Per molti versi questo film può essere considerato il punto cruciale della carriera di Roman Polanski. Le ragioni sono almeno tre. Innanzitutto L’inquilino del terzo piano segna il suo grande ritorno in Francia, dopo la conquista di Hollywood, in secondo luogo perché prolunga il gusto di Polanski per universi malsani e angoscianti pur dando un punto definitivo a questo tipo di film (in seguito il cineasta si avventurerà poi verso qualcosa di più genere popolare e spettacolare), infine perché tende a far sentire, e in modo molto più assertivo che altrove, quel sentimento di alienazione che ha segnato gran parte della sua filmografia. In questo senso, L’inquilino del terzo piano supera anche Rosemary’s baby nella sua ambizione perché condensa tutte le ossessioni del suo autore in uno scenario ordinario e per questo più inquietante, perché sembra chiamare in causa lo spettatore mettendolo in guardia dal sentirsi al riparo dalla sorte del protagonista.

Infatti Polanski non ha bisogno di quasi nulla per creare un trauma diffuso nel suo pubblico. A suscitare inquietudine sono semplici dettagli quotidiani che, inquadrati da una certa angolazione o attraverso una maliziosa stilizzazione, diventano fonte di vero e proprio terrore. In un certo senso possiamo quasi considerare il film come tranquillo, stranamente diurno e banale, segnato da una regia relativamente scarna e priva di effetti stilistici. Polanski si diverte con la ripetizione ossessiva di motivi (tra cui la vertiginosa inquadratura della tromba delle scale da un’angolazione bassa), con il progressivo restringimento dell’azione alla semplice ambientazione dell’appartamento dove il protagonista si isola per instillare una crudeltà che vira gradualmente al surreale e lo sviluppo di un’atmosfera che sembra dissolvere la reale identità dell’eroe in un bagno di paura. Ma soprattutto, segno di assoluta coerenza con il suo soggetto, il cineasta non esita a portare il suo eroe a perdere la sua virilità al punto da identificarsi con l’ex inquilina, fino a riprodurne il gesto estremo finale.

Si è detto dell’accoglienza riservata al film alla sua uscita: lo stesso Polanski ammise alcuni errori eppure – a distanza di quasi cinquant’anni – L’inquilino del terzo piano appare un’opera del tutto straordinaria, dove la poesia gareggia con il pathos in una Parigi fantastica e ostile. Un grande capolavoro dell’ansia!

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