Gene Hackman è noto per aver interpretato personaggi rudi (Il braccio violenti della legge), cinici, senza scrupoli, ma è anche protagonista positivo di film più complessi sul piano psicologico ed etico, tutti attuali ancora oggi, come La conversazione, Stringi i denti e vai e Mississippi Burning.
Fra le star del cinema americano ci sono attori che mi riuscirebbe difficile associare a ruoli da “cattivo”. Magari li hanno qualche volta interpretati, o sarebbero stati in grado di farlo con la stessa disinvoltura di chi si cambia un abito. Ma – è una mia personale sensazione – non riesco a immaginare John Wayne o Robert Redford nei panni di perfidi assassini o di killer senza scrupoli. Ci sono, invece, attori che hanno alternato parti positive a figure negative, per non dire criminali, riuscendo convincenti in entrambe. Sarebbe troppo facile ricordare, come paradigma d’eccellenza, Robert De Niro. Ma un altro di questi attori è Eugene Allen “Gene” Hackman, nato nel 1930 a San Bernardino, California, due Oscar, cinque candidature alla statuetta. Ne Il braccio violento della legge (titolo originale The French Connection, 1971, di William Friedkin) Gene Hackman interpreta il ruolo di un poliziotto, Jimmy “Papà” Doyle, della squadra narcotici, diciamo un po’ rude, dai metodo spicci, non proprio un cattivo, ma una specie di rullo compressore che spiana tutto pur di arrivare all’obiettivo. Non piace molto ai suoi superiori per i suoi metodi: un po’ come l’ispettore Callaghan che si troverà quasi invariabilmente di fronte a capi e a politici conformisti, compromessi e/o castranti. In The French Connection, Hackman fa coppia con l’investigatore Buddy “Tristezza” Lo Russo interpretato da Roy Scheider, che rivedremo a breve (nel 1975) come capo della polizia Brody ne Lo Squalo (Jaws) di Spielberg. Per Il braccio violento della legge – film di pregevole fattura, anche per la fotografia e l’ambientazione urbana in una New York poco romantica quanto reale, teatro di uno dei più famosi inseguimenti in auto nella storia della cinema – Hackman ottiene il suo primo Oscar come migliore attore. Aveva alle spalle già 17 film. L’anno dopo, nel 1972, è – con Ernest Borgnine – nel cast di un altro filmone, L’avventura del Poseidon, di Ronald Neame, come reverendo Frank Scott. Dal rude poliziotto all’uomo di chiesa.
Nel 1974 Gene Hackman è protagonista de La conversazione, di Francis Ford Coppola (film in cui appare, fra l’altro, un giovanissimo Harrison Ford). L’investigatore Harry Caul, esperto in apparecchi e sistemi per intercettazioni, è un tecnico famoso nel suo ambito; personaggio introverso, di pochissime parole, ossessionato dalla privacy, riceve dal direttore di una grande azienda l’incarico di registrare la conversazione esterna di una giovane coppia a San Francisco. Riascoltando e riesaminando il materiale si addentra sempre più in quello che potrebbe diventare un caso di omicidio (“Se gliene diamo la possibilità, ci può ammazzare” è una delle frasi chiave che emerge dal riascolto delle registrazioni). È un film che unisce il thriller a una narrazione dai risvolti esistenziali e psicologici di grande attualità, a partire dal tema della privacy: alla fine Harry Caul, solo nella stanza del suo appartamento da lui stesso rovistato da cima a fondo (distrugge praticamente la casa) per trovare le cimici che crede siano state nascoste per spiarlo (spiare lui che spia per professione, il colmo!), si mette a suonare il sassofono, la sua passione.
È sempre in quegli anni (1974) che Gene Hackman compare in un cameo divertente di Frankestein Junior, come frate Abelardo in una delle scene più esilaranti di quel capolavoro più unico che raro di Mel Brooks. Alla porta della modesta abitazione di Frate Abelardo, che è cieco e solo, si presenta il colosso redivivo, interpretato da Peter Boyle, scappato dal castello del dottor Frankenstein. Frate Abelardo lo accoglie felice di poter consumare una cena con qualcuno anche se l’ospite si esprime a base di grugniti e suoni nasali. La cena non sarà molto divertente per la “creatura” visto che Frate Abelardo gli versa la minestra bollente addosso, gli spacca il bicchiere pieno di vino durante il brindisi e, dopo avergli offerto un sigaro, dà fuoco al pollice del malcapitato gigante. Esasperato, Frankenstein se ne va sfondando la porta e grugnendo di rabbia.
Gene Hackman ha interpretato spesso ruoli “negativi”: il vagabondo aggressivo ne Lo spaventapasseri; ne Gli spietati di Clint Eastwood (1992) impersona l’implacabile sceriffo Bill Dagget; è il supercriminale Lex Luthor antagonista di Superman (1978). Ne Il socio (1993) di Sidney Pollack è partner storico di uno studio legale che cura gli affari della mafia. In Potere assoluto (1997) è addirittura un presidente Usa che mena e ammazza (involontariamente) una delle sue amanti. In questo film c’è anche Clint Eastwood nella parte di un ladro abilissimo che assiste a tutta la scena, nascosto dietro una stanza a scomparsa. Ne La giuria (2003) Gene Hackman è un avvocato, Rankin Fitch, che non si risparmia di corrompere giurati e testimoni.
Non è forse universalmente noto che Gene Hackman rifiutò la parte di McMurphy in Qualcuno volò sul nido del cuculo, e quella di Ron Neary in Incontri ravvicinati del terzo tipo. Due parti straordinarie, due occasioni potenziali da Oscar, ma i due attori che hanno poi recitato in quei ruoli (Jack Nicholson e Richard Dreyfuss) si sono rivelati addirittura più adatti alla parte. Hackman rifiutò poi il ruolo dello sceriffo Tesle in Rambo (1982).
Ma il Gene Hackman di cui voglio parlare, e che preferisco, è in altri due film che sono secondo me fra i suoi migliori: Mississippi Burning, Le radici dell’odio (1988) con Willem Dafoe (agente speciale Alan Ward) e molto prima (1975) Stringi i denti e vai (Bite the Bullet) di Richard Brooks. Perché cito prima Mississippi Burning? Perché in questo film Hackman impersona un agente dell’FBI, Rupert Anderson, che gli permette di tirare fuori due aspetti chiave della sua personalità di attore: il carattere deciso, i modi spicci che ricordano Papà Doyle ne Il braccio violento della legge, ma con la differenza che in Mississippi Burning Rupert Anderson è più simpatico e ironico. Ricordiamo che questo film si basa su un fatto veramente accaduto: l’uccisione di due attivisti per i diritti civili del Mississippi avvenuto nella contea di Nashoba nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1964, da parte di un gruppo locale appartenente al Ku Klux Klan capeggiato dal vicesceriffo e coperto dallo sceriffo.
L’altro aspetto della personalità attoriale di Hackman è una gentilezza e una sensibilità di modi, che si esplicitano soprattutto nella sua relazione con i personaggi femminili: in Mississippi Burning si affeziona alla signora Pell (Frances Louise McDormand), moglie di uno dei razzisti coinvolti nell’omicidio degli attivisti, in apparenza un cittadino normale. Tra la signora Pell e l’agente Rupert Anderson si crea una confidenza non molto diversa da quella che si instaura tra Robert Caulfield e Carol Hunnicut (l’attrice Anne Archer) nel film Narrow margin (1990), Rischio totale, di Peter Hyams, dove Caulfield-Hackman deve proteggere una testimone (Carol Hunnicut) che aveva assistito (non vista) a un delitto di mafia.
Uno dei ruoli più belli interpretati da Gene Hackman è in Stringi i denti e vai (Bite the Bullet) di Richard Brooks, 1975, un film a metà tra il western e l’avventura. Il giornale The Western Press organizza una corsa a cavallo di 700 miglia. Vi partecipano, fra gli altri, Sam Clayton (Gene Hackman) e Luke Matthews (James Coburn), due amici e rough riders reduci dalla guerra ispano-americana. Questa gara mette in palio un cospicuo premio in denaro al vincitore, e quindi attira sia individui loschi dall’etica e dalla personalità stercorarie sia veri e propri campioni e signori, come Sam Clayton che oltretutto nutre un profondo rispetto per il proprio cavallo (a differenza degli altri concorrenti, che non si fanno scrupoli a sfruttare i propri animali fino allo sfinimento pur di tagliare il traguardo per primi). Questo film è un capolavoro che si posiziona sulla scia ideologica di movies come Non si uccidono così anche i cavalli, (1969, di Sidney Pollack) metafore del lato oscuro e dna del capitalismo dove l’unica cosa che conta è vincere, avere successo, fare i soldi. Ma Sam Clayton non è un vero americano, come ammette lui stesso: è troppo fine e ben educato. È troppo maturo. Questo aspetto emerge a chiare lettere in una scena dialogata di valore paradigmatico: Sam Clayton ha appena salvato Mister (l’attore è Ben Johnson) che, caduto da cavallo per un malore, rischiava di morire annegato. Mister, davanti al calduccio del fuoco, racconta a Sam il motivo per cui partecipa a questa gara assurda: non tanto per i soldi, sì anche per quelli, ma soprattutto perché tutti cercano il vincitore, vogliono stare con lui, lo ammirano. Il perdente, invece, non lo vuole nessuno, è disprezzato, nella migliore delle ipotesi ignorato.
Sam Clayton, taciturno, amante degli animali, umano ed empatico, arriverà primo. Ma non taglia il traguardo. Pur di non ammazzare il suo cavallo, ormai sfinito, scende e si avvia lemme lemme alla fine. Nel frattempo, sopraggiunge Luke Matthews. Potrebbe vincere approfittando del bel gesto di Sam. Preferirà invece smontare da cavallo e accompagnare Sam al traguardo. Un finale da favola o utopico? Può darsi, ma è una grande lezione di morale che si dovrebbe insegnare nelle scuole, a partire dalle elementari, per non creare una società di automi ambiziosi e competitivi.
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