Se quella tra cinema e letteratura è una forma di contaminazione talmente di prassi da non potersi più nemmeno ritenere tale, ci sono altre tipologie di “crossover” meno praticate e meno usuali, che tuttavia, in determinati passaggi storici, hanno avuto non solo una loro ragion d’essere, ma soprattutto un loro pubblico e una loro logica produttiva.
Tra queste, la più singolare e al tempo stesso più celebre, è quella tra cinema e canzoni. O “canzonette”, a voler essere più maligni. Vale a dire, quei film nati espressamente con l’intento di sfruttare il successo commerciale del divo o della canzone del momento. In altri termini, anche se la definizione può apparire assai forzata, film tratti da canzoni, quelli che si chiamavano, e si chiamano ancora oggi, a decenni di distanza, “musicarelli”.
In principio fu ovviamente Elvis Presley. Nel senso che nell’America di fine anni Cinquanta, lo sconquasso portato dal rock’n’roll come gioioso urlo liberatorio dagli anni più cupi del maccartismo, fu travasato nello spazio di un niente al cinema, dando origine a un vero e proprio sottogenere, i cosiddetti “rock’n’roll movies”, una scarica di adrenalina, giubbotti di pelle e brillantina che trovò in Presley l’interprete d’eccezione. E in Jailhouse Rock (uscito in Italia con il titolo Il delinquente del rock’n’roll) la pellicola più celebre.
Nello stesso periodo anche l’Italia si apprestava a vivere la sua rinascita con gli anni felici e spensierati del “boom”, il cosiddetto “miracolo economico” che proprio nella musica avrebbe trovato il simbolo di una gioventù che riappropriandosi di se stessa, e del proprio tempo libero, andava a riscrivere una scala di valori e priorità del tutto diversa da quella dei padri, vedendo nelle canzoni un marchio di identità, uno status symbol generazionale. Novità come il jukebox e il 45 giri, che proprio a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, invasero la vita quotidiana di adolescenti e non, fecero il resto, trasformando i giovani in una specifica categoria di consumatori e la musica in un affare.
Nacque così il “musicarello”, vale a dire il film musicale, o meglio il “film canzone”, un sottogenere che, se pur relegato (giustamente) nel sottobosco del cinema minore, ha rappresentato in maniera significativa l’Italia preideologica degli anni Sessanta, finendo per esserne, ancora oggi, uno dei simboli più singolari.
Probabilmente oggetto di indagine più per studiosi di sociologia che di cinema, il sottogenere del musicarello, nel periodo d’oro, tra il 1959 e il 1970, produsse oltre cento film, tutti a basso (spesso a bassissimo) costo, che hanno visto coinvolti, in diversa misura, più o meno tutti i divi della canzone italiana del tempo (Gianni Morandi e Rita Pavone senza dubbio i più sfruttati, ma non mancano Mina, Caterina Caselli, Adriano Celentano, Enzo Jannacci). Un sottogenere tanto “forte”, vale a dire dotato di una serie di codici espressivi e narrativi fissi e immediatamente riconoscibili, quanto privo di sviluppo, destinato a non avere alcuna parabola evolutiva, a non sopravvivere in alcun modo al periodo storico di cui è figlio. Al punto, se non in rarissimi casi, da non essere ripescato nemmeno nelle cicliche, fortunatissime (e furbissime) operazioni nostalgia che vedono proprio gli anni Sessanta come decennio d’eccezione e maggiormente sfruttato.
Eppure, già detto ma bene ribadirlo, questi film sono (o finiscono per essere) loro malgrado uno spaccato d’eccezione di un’Italia probabilmente (o direttamente senza dubbio) del tutto inesistente, vale a dire un paese a tinte pastello (anche nel bianco e nero d’ordinanza) privo di contraddizioni e increspature, permeato di voglia di vivere e buoni sentimenti destinati a trionfare sempre e comunque, nella più innocente e innocua delle maniere.
Se I ragazzi del jukebox di Lucio Fulci (ispirato all’omonimo 45 giri di Adriano Celentano), del 1959, è universalmente riconosciuto come primo esempio del genere e prototipo per i film futuri, secondo Claudio Bisoni, storico del cinema, autore di Cinema, sorrisi e canzoni. Il film musicale italiano degli anni Sessanta, edito da Rubettino nel 2020, la forza prorompente delle nuove sonorità (non esclusivamente rock, specie in Italia), e soprattutto ciò che esse rappresentavano, entra prepotentemente anche in film di tutt’altro spessore. Lo studioso porta come esempio la celebre sequenza de La dolce vita in cui si esibisce uno scatenato (e giovanissimo) Adriano Celentano, rompendo la compostezza del locale e facendo lanciare Anita Ekberg e altri in una danza smodata e irresistibile. Ma se Fellini in quella manciata di minuti riesce a cogliere la furia seduttiva, erotica e di rottura sprigionata dal ritmo, il musicarello, nella sua forma base, pur svolgendo l’intera trama, e non una sola sequenza, sulla falsariga delle canzoni, va in direzione opposta. Vale a dire che addomestica quella deflagrazione, quella potenza esplosiva, riportandola nei binari di un giovanilismo buono, pulito ed educato.
In questo senso, esempio a dir poco perfetto, un autentico manuale del musicarello è Urlatori alla sbarra. Il film anzitutto sfruttava lo scontro musicale all’ordine del giorno in quegli anni, tra i tradizionali cantanti melodici, i cosiddetti “usignoli”, e gli esponenti della nuova scuola, gli “urlatori”, che spaziavano dal proto rock di Celentano alla poderosa e miracolosa estensione vocale di Mina. Ovviamente, lo scontro era anche, e soprattutto, generazionale, tra vecchi e giovani, padri e figli, adulti e adolescenti, come da copione degli anni Sessanta. Ma anche lo scontro è lontano anni luce sia da una rappresentazione minimamente veritiera degli anni del boom, sia soprattutto da un’indagine sociologica dell’Italia del tempo. La dialettica è talmente depotenziata da risultare fasulla, innocua e conciliante a tutti i costi. Non a caso, il musicarello in questione non è incentrato sulla figura del singolo divo, ma contiene tutti gli urlatori, tutte le voci nuove, come a voler spogliare l’intera generazione di una qualsiasi vena di protesta o anche soltanto minimamente problematica.
Il cocktail è ripetuto identico in Sanremo – la grande sfida, per la regia di Pietro Vivarelli, che ripropone lo scontro tra le due scuole inserendo tutti i principali esponenti, da Nilla Pizzi a Modugno passando per Tony Dallara, un maxi contenitore tutto proteso alla ovvia riconciliazione finale.
Ed è sempre in quest’ottica di rassicurazione a tutti i costi che, nei primi anni Sessanta, il plot dei musicarelli da collettivo si fa individuale, incentrandosi sul singolo cantante e sulla singola canzone di successo. Non a caso, i cantanti/attori più gettonati sono i giovanissimi Rita Pavone e, soprattutto, Gianni Morandi. La loro età rappresenta per forza il nuovo che avanza, ma il tenore dei singoli che propongono e la loro faccia pulita e bambinesca è garanzia di innocenza.
In una parola, l’incarnazione stessa della conciliazione e della rassicurazione all’alba degli anni della contestazione.
In un primo momento, queste tinte pastello, questa bolla quasi surreale e lontana anni luce dalla realtà materiale dei fatti, è anche il segreto del loro successo, per cui a un valore estetico pressoché nullo e a un impianto produttivo a bassissimo costo, corrispondono quasi sempre incassi straordinari.
Ma il tramonto è in agguato. La formula ripetitiva e priva di ulteriori sviluppi (di fatto il musicarello è uno dei pochissimi generi, o sottogeneri che dir si voglia, a non conoscere evoluzione alcuna) finisce per stancare molto presto. L’arrivo del ’68 (e soprattutto l’esplodere della tensione sociale nel decennio successivo) e il mutato contesto sociale e politico, faranno il resto, mandando definitivamente in soffitta il musicarello.
Che, come già detto in apertura, non conoscerà revival. Tranne qualche tentativo di riproporne la formula: Ciao mà, con le canzoni e il tour di Vasco Rossi a fine anni 80, Laura non c’è con Nek e Jolly Blue con gli 883 a fine anni 90.
Tutti e tre a dir poco sciagurati, di infimo livello e di gran lunga al di sotto dei loro progenitori. E tutti e tre incapaci di rinverdire il genere o di produrre alcun seguito.
Per fortuna.
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