Nella Roma di fine anni ’70 si verificano una serie di sanguinosi e misteriosi omicidi. Le vittime, tutte “persone” ben note al grande pubblico, apparentemente non hanno alcun legame tra loro. Solo che il giornalista Valerio Barigozzi (Johnny Dorelli), fallito e spaccone, male impiegato nella casa editrice dove lavora, con una moglie che vuole divorziare e un figlio che trascura (il ragazzo, adolescente, soffre molto di questa situazione e vorrebbe vivere col padre), si trova ogni volta sul luogo dei delitti perché riceve messaggi anonimi che lo avvertono della loro imminenza. Inizia una corsa contro il tempo tra il reporter e il “mostro”, che gli fa inspiegabilmente arrivare bigliettini con l’annuncio del prossimo delitto, mentre il quotidiano dove lavora – avido di notizie – lo fa crescere nella carriera . Ma Barigozzi, diventato famoso e sempre più carrierista, commette alcuni errori e non solo si trasforma in un testimone chiave dei delitti, ma addirittura diventa “il” sospettato…

Johnny Dorelli, la cui carriera cinematografica non è mai stata adeguatamente valutata, disegna un personaggio ambiguo, frustrato, vittima di manie di grandezza e in cerca di rivalsa (per sbarcare il lunario scrive sotto pseudonimo giallacci violentissimi). Per certi versi l’evoluzione di quel “padre di famiglia” interpretato nel primo episodio de I mostri (1963), di Dino Risi, che portava il titolo “L’educazione sentimentale” (Barigozzi, tanto per fare un esempio, non esita a rigare le auto in doppia fila).
Luigi Zampa lo dirige ne Il mostro (1977) forte della sua tradizione neorealista anche quando firmava commedie. Di lui certamente si ricorda il suo capolavoro, Processo alla città (1952), la realistica ricostruzione di un processo alla camorra, scritta da Francesco Rosi. Ma la sua arte è indubbiamente ricordata dallo spettatore per film come Il vigile (1960), ispirato ad un fatto di cronaca e con uno strepitoso Alberto Sordi. E non bisogna dimenticare, sempre con Sordi,
Il medico della mutua (1968) e Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971).

Ne Il mostro, Zampa si diverte a miscelare due sottofiloni in voga in quel periodo, il primo in declino il secondo ancora in auge: il thriller all’italiana e il poliziottesco. Servito da un protagonista in stato di grazia, gretto e meschino, impegnato a formulare battute sgradevoli delle quali si pentirà. Come se il tempo si fosse fermato, Barigozzi rappresenta la quintessenza del populismo più triviale, un antesignano dei leoni da tastiera che infettano i social con i loro insulti anonimi ogni santo giorno. Se la sua vicenda non finisse in un determinato modo potrebbe sembrare che stia scaldando i motori per entrare in una certa politica di oggi.

Zampa non firma un capolavoro, anche perché le costruzioni a tesi spesso impediscono che ciò si realizzi quando il teorema è troppo costruito. Ma la sua regia è efficace, pur nella scelta di non sviluppare una messinscena particolarmente ricercata.
Fondamentale lo sceneggiatore Sergio Donati, imprescindibile protagonista del cinema italiano in quello che viene definito cinema di “genere” che, curiosamente, aveva sviluppato lo stesso argomento da un altro punto visuale nel troppo dimenticato Sbatti il mostro in prima pagina (1972), di Marco Bellocchio, con Gian Maria Volonté.

Lo slalom del personaggio di Dorelli nello spregevole non ha limiti nel film, in questo forse esagerando in un sovraccarico simbolico. Ma è certamente in buona compagnia: dalla moglie Anna (Angelica Ippolito), che preferisce intrattenersi ogni sera con un uomo diverso piuttosto che accudire il figlio, ai colleghi in redazione che non perdono occasione per umiliarlo e quindi accentuare la sua voglia di riscatto. Ma c’è di tutto: dalla prima vittima, nonno Gustavo (Gianrico Tedeschi), che racconta fiabe in TV ma maltratta i bambini, all’industriale maneggione Baruffi (Renzo Palmer) che, vendendo cosmetici, cerca di avvantaggiarsi mediaticamente dal fatto che il misterioso assassino dipinge una V sul volto delle vittime con i suoi rossetti. C’è Dina (Sydne Rome), l’attrice allora era molto in voga ma presente per una decina di minuti, che incide un disco sul “mostro”; così come il commissario di polizia Pisani (Orazio Orlando) che occulta una prova.

L’attacco di Zampa al giornalismo può essere gradito in base all’orientamento politico dello spettatore perché, di fatto, è piuttosto qualunquista se accolto in maniera generica.
Diverte sicuramente lo sforzo del regista, ormai anziano, nell’aprirsi, per quanto ironicamente, al cinema italiano in voga allora (che stava pesantemente vivendo la “morte dei generi”). All’inizio del film Barigozzi e figlio si recano in un cinema di profondità per assistere a La morte cammina con i tacchi alti (1971), di Luciano Ercoli, un thriller che Zampa intende scimmiottare. E infatti rappresenta il thriller argentiano “basico”: omicidi alla lama di coltello, riprese in soggettiva (per rappresentare l’assassino sulla scena degli omicidi), un investigatore “casuale” come primo testimone degli delitti.
Ma la sala – dentro e fuori – è tappezzata con i manifesti di La banda del trucido, Carrie, Spasmo, Il sangue delle vergini, L’orgia notturna dei vampiri.

Non manca la scena d’antologia, accortamente inserita nel finale: Barigozzi comprende finalmente che il “mostro” gli era più vicino di quanto potesse mai immaginare, e si rende conto di averlo egli stesso creato. Si inchina dolcemente davanti al Mostro aspettando che il suo destino si unisca a quello delle vittime precedenti.
Sprecata la (scarsa) presenza musicale di Ennio Morricone.

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