1861, tenuta di Tara, contea di Clayton, Georgia, Stati Uniti.
La ricca e viziata ereditiera Rossella O’Hara vede, in un tempo incredibilmente breve, sgretolarsi sotto l’incedere implacabile della guerra di Secessione tra nordisti e sudisti la prospettiva di una vita agiata. E, con essa, l’intera società latifondista e agricola del sud schiavista che di quella agiatezza era la base e la garanzia.
È il plot di base di Via col vento (Gone With The Wind), poderoso romanzo (oltre mille pagine) di Margareth Mitchell uscito nel 1936 (1937 in Italia). In un panorama straordinariamente ricco come quello della letteratura americana del Novecento, Via col vento occupa un posto comunque d’eccezione. Successo e caso editoriale senza precedenti (e con pochissimi seguiti), un milione di copie vendute in soli sei mesi, esso è il vero (per alcuni il solo) grande romanzo popolare americano. Affresco storico e melodrammatico di grande respiro, sapiente mescolanza di vero e verosimile come i grandi romanzi di tradizione europea dei secoli scorsi (Les miserables di Hugo, I promessi sposi di Manzoni, sebbene con un altro valore letterario), pur adottando l’esclusivo punto di vista sudista è riuscito – e riesce tuttora – a farsi storia universale, sia per la componente romantico amorosa e per l’alone epico-mitologico che circonda i fatti narrati, sia perché, rimpiangendo valori di un tempo passato, diventa metafora delle cose perdute e del rimpianto mescolato alla crudezza della vita quotidiana.
Un successo così travolgente che l’idea di farne un film venne al produttore David Selznick, all’epoca appena trentenne e da molti – giustamente – ritenuto l’autore principale del film, immediatamente, nel pieno del boom delle vendite del libro.
L’idea di Selznick era folle ed elementare al tempo stesso. Vale a dire che intendeva portare sul grande schermo una sorta di “riduzione/non riduzione”, cioè l’intera storia narrata nelle oltre mille pagine di romanzo non solo senza alterazioni, ma soprattutto senza tagli di sorta.
Un’impresa di fatto impossibile. E infatti in fase di sceneggiatura il giovane e rampante produttore fu costretto ad accettare alcuni inevitabili compromessi. In primis la sfaccettata complessità con cui Mitchell tratteggia i personaggi, tanto quelli principali quanto quelli secondari, sacrificata nel film a favore di caratteri più netti e inevitabilmente meno approfonditi. Massimo esempio proprio la protagonista, il cui carattere bizzoso nel libro è scavato così a fondo da giustificarne anche le manifestazioni più insopportabili.
Anche il fondamentale tema della schiavitù, indagato in particolare nella dimensione quotidiana dei rapporti tra servo e padrone, nel film ha un approccio più superficiale, cadendo in più di un’occasione in uno scoperto razzismo. Giocoforza, vengono omessi anche alcuni personaggi secondari, con le relative sottotrame. Ma al di là del fatto che tagli e cambiamenti ci sono, e che come in ogni riduzione hanno un peso e a loro modo rappresentano un tradimento dell’intreccio originario, si tratta comunque di variazioni minime, a tratti impercettibili. In sostanza, la durata mostruosa del film voluta da Selznick, oltre quattro ore (assai più di un colossal), permette di mantenere pressoché intatto lo sviluppo della trama.
Il successo del romanzo era tale e tanto, specie nel sud, specie in Georgia, che l’uscita del film fu attesa come l’evento del secolo. Nel 1939, a dicembre, dieci giorni prima di Natale, per la prima assoluta del film il governatore della Georgia addirittura proclamò tre giorni di festa nazionale. Mentre Vivien Leigh, Clarke Gable e le altre star del film, sfilarono per le vie di Atlanta tra due ali di folla impazzita, in una parata di oltre dieci chilometri. Al di là degli eventi di presentazione, sfarzosi, esagerati e costosi come il film, la pellicola non deluse le aspettative .
La storia di Rossella – che per dimenticare l’amato Ashley, sposatosi con sua cugina Melania, precipita in due matrimoni infelici per poi sposarsi una terza volta con quel Rhett Butler, cioé Clark Gable, conosciuto anni prima e con cui da sempre aveva instaurato un rapporto conflittuale e che alla fine la lascia facendole capire di aver sempre amato solo lui, ma lui francamente se ne infischia lasciandola sola a dirsi che «dopotutto, domani è un altro giorno» – entusiasmò il grande pubblico, sia quelli che conoscevano il romanzo sia i neofiti. Alcuni rimasero turbati, ma fu comunque un successo clamoroso (c’è una Rossella dentro ogni donna, commentò Mitchell a margine di quel trionfo), primo tornante di una strada che portò alla vittoria di ben dieci premi Oscar e al record del maggiore incasso della storia del cinema.
Il razzismo cui si accennava prima, il modo grottesco un cui vengono rappresentati gli afroamericani, le violenze domestiche, nonché un linguaggio a tratti così castigato da risultare più che improbabile, sono le componenti datate, legate al contesto in cui nacquero, oggi improponibili e soprattutto inaccettabili e irricevibili. Eppure, per la grandiosità del progetto, le componenti romantiche e struggenti, la trama capace ancora di rapire senza scampo, l’epica che sostiene il tutto, rappresenta una svolta imprescindibile nella storia della cinema, nel rapporto tra spettatore e film, nella stessa modalità di fruizione e ricezione dell’opera cinematografica. Certo realizzare “il più film tra i film”, quello che lo stesso Selznick definì “la Bibbia americana”, fu tutt’altro che semplice.
I produttori americani hanno sempre un ruolo gigantesco, ma Selznick pretese il totale controllo su ogni aspetto del film, riducendo lo stesso regista (prima George Cukor, poi per inevitabili dissidi sostituito da Victor Fleming, due nomi non certo da poco) a un mero esecutore. Volle a tutti i costi Clark Gable (Cukor avrebbe voluto Gary Cooper), benché sotto contratto con la MGM, e ritardò le riprese, perdendo moltissimi soldi per aspettarlo. Per il ruolo di Rossella (in inglese Scarlett) provinò oltre mille attrici, e la scelta infine cadde sull’inglese Vivien Leigh. La sceneggiatura fu riscritta infinite volte, con la partecipazione addirittura di Francis Scott Firzgerald, anch’egli marcato a vista da Selznick, furono realizzati più di 90 set e coinvolte oltre 2.500 comparse.
Dopo un tempo infinito e tantissime grandiose scene di guerra, il film fu terminato. Un’attesa sfibrante che aumentò pettegolezzi, dicerie ma anche curiosità, contribuendo senz’altro al futuro successo in maniera decisiva.
A testimonianza di quanto detto finora, al di là dei premi e del travolgente successo di pubblico, nessuno, specie la stampa specializzata, lo salutò alla sua uscita come un capolavoro. Ma nessuno poté esimersi dall’ammettere come Via col vento fosse in più di una componente cinema allo stato puro, quello stato puro più avanzato che, in quel 1939, la settima arte fosse in grado di ottenere. Ed è relativamente semplice spiegare e capire perché ancora oggi sia in grado di suscitare le stesse emozioni, sia ancora oggi in grado di inchiodare lo spettatore per oltre quattro ore. Semplicemente perché quelle componenti capaci di produrre cinema puro allora – magniloquenza, pettegolezzi, star, esagerazioni, melodramma, amore, guerra, epica – sono le stesse di oggi.
E il cinema puro, anche tra mille anacronismi, è incapace di invecchiare. Pure se, dopotutto, domani è un altro giorno.
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