Ingegnere di formazione, Pierre Boulle (1912-1994) vive e lavora nel sud-est asiatico. Impegnato nelle forze francesi libere durante la Seconda guerra mondiale, trae ispirazione dalla sua esperienza militare per scrivere, nel 1952, il romanzo che lo renderà famoso a livello internazionale: Il ponte sul fiume Kwai, adattato con successo per il cinema da David Lean. Nel 1963 pubblica Il pianeta delle scimmie, una storia relativamente sintetica, composta da brevi capitoli, ciascuno dei quali termina con una sospensione tipicamente da soap opera. Due turisti dello spazio ritrovano un singolare manoscritto il cui narratore è un giornalista terrestre dell’anno 2500, dall’incongruente cognome non casuale: Ulysse Mérou. In breve, si scoprirà che in quel luogo gli uomini erano i dominatori, ma i primati – addomesticati per imitare i loro padroni – alla fine hanno preso il potere, evolvendo nel corso di diverse centinaia di secoli. Ma questa verità è considerata pericolosa e le nuove autorità hanno decretato che la scimmia non può ragionevolmente discendere dagli uomini, creature considerate inferiori, e sui quali vengono condotti numerosi esperimenti, in particolare sul loro cervello. Ma il vero orrore avviene alla fine del romanzo, denso di eventi e scoperte, quando i protagonisti tornano sulla Terra: Mérou si sorprende nel vedere che in 700 anni le cose sembrano rimaste immutate. La Torre Eiffel è ancora in piedi, i veicoli che si avvicinano sulla pista di Orly dove è atterrata l’astronave assomigliano a quelli di un tempo. Un ufficiale si avvicina e Mérou che all’ultimo nota, sbalordito, che si tratta di un gorilla. Durante la sua assenza, il processo di evoluzione scoperto sul pianeta delle scimmie si è riprodotto sulla Terra. Il romanzo si conclude ritornando alla coppia di lettori del manoscritto, che si scopre essere essi stessi degli scimpanzé, trovando questa storia con uomini intelligenti implausibile: “Uomini ragionevoli? Uomini saggi? Uomini ispirati dallo spirito?… No, non è possibile; lì il narratore ha superato la misura. Ma è un peccato!”
Al tempo stesso satira e favola di fantascienza, Il pianeta delle scimmie attinge direttamente dalla tradizione del racconto filosofico. Boulle si rivela vicino in questo senso ai grandi romanzieri utopici come Jonathan Swift (I viaggi di Gulliver), Aldous Huxley (Brave New World) o Vercors (Animali snaturati), ma anche all’umanesimo di Montaigne (I cannibali) o di un Montesquieu (Lettere persiane). Secondo un postulato testato da altri prima di lui, propone quindi di invertire i valori della nostra società moderna. Una sorta di “e se…?” per evidenziarne i difetti, l’egoismo e la l’ottusità mentale. La dimostrazione è tanto più brillante in quanto lo scrittore sceglie come eroi degli studiosi (giornalista, scienziato), che rappresentano l’élite di una specie che farà letteralmente sprofondare in fondo alla scala evolutiva. Situando la sua storia in una società che somiglia in tutto e per tutto alla nostra, rifiutando il cambio di scenario dei viaggi interstellari della fantascienza primitiva, il romanziere crea un vero e proprio turbamento, alla fine molto più evocativo che se si fosse trattato di una civiltà insolita o tecnologicamente troppo avanzata. Questa scelta rafforza anche l’idea del mimetismo, con queste scimmie, che si accontentano di riprodurre il modello umano senza farlo avanzare ulteriormente. L’uomo ridotto al rango di bestia, cioè a sé stesso, riscopre l’umiltà.
Sotto la sua veste di modesto intrattenimento letterario, la storia di Pierre Boulle offre così una sottile messa in discussione delle teorie evoluzionistiche che considerano la superiorità dell’uomo e il suo regno sulla Terra come una conquista. La certezza di questa superiorità ci ha reso smidollati e pigri. Verrà un giorno in cui la nostra specie avrà fatto il suo tempo e sarà sostituita da creature dotate di maggior volontà, creature che avevamo schiavizzato e alle quali ci avviciniamo senza guardarle in faccia, nel profondo degli occhi.
Se c’è un nome da ricordare nel franchise del Pianeta delle scimmie, è quello di Arthur P. Jacobs, l’artefice del primo adattamento cinematografico – quello che a noi interessa, il “classico” – e dell’intera saga a venire. Nato nel 1922, Jacobs inizia la sua carriera a Hollywood negli anni ’40, prima nel reparto pubblicitario della MGM poi alla Warner, scalando le classifiche fino a mettersi in proprio diventando agente delle più grandi star (Gregory Peck, James Stewart, Judy Garland, Marilyn Monroe). Negli anni ’60 inizia a lavorare come produttore, la sua vera vocazione. Non appena il romanzo di Pierre Boulle viene pubblicato, ne acquisce i diritti e ne affida l’adattamento a Rod Serling, il mitico creatore della serie televisiva di sf Ai confini della realtà. Questa scelta appare a priori ideale in quanto il soggetto del libro, attraverso la sua dimensione di incubo a occhi aperti, avrebbe potuto benissimo originare un episodio della serie. Jacobs riesce a ottenere un’adesione da parte di Charlton Heston, che a sua volta gli suggerisce di ingaggiare Franklin J. Schaffner come regista: i due uomini erano andati magnificamente d’accordo durante le riprese di Il principe guerriero (The War Lord, 1965), il loro film precedente, un sorprendente ritratto dell’oscurantismo medievale.
Schaffner fa parte di quella nuova e talentuosa generazione di registi che si erano fatti le ossa in televisione negli anni ‘50. Regista esigente, è coinvolto in tutti gli aspetti della produzione. Partendo da queste basi il progetto sembra quindi particolarmente solido ma Jacobs fatica a suscitare l’interesse di Hollywood. Per le major un film di fantascienza con le scimmie suona come una degradante “serie Z”, utile solo a riempire le doppie proiezioni dei drive-in. Ma in quel periodo Jacobs produce per la Fox Il favoloso dottor Dolittle (Doctor Dolittle, 1967), una costosa commedia musicale diretta da Richard Fleischer. Sul set incontra Richard Zanuck, giovane capo dello studio, e riesce a vendergli il suo progetto, che sarà per Jacobs il lavoro della vita.
La sceneggiatura scritta da Serling non è considerata soddisfacente e Michael Wilson viene coinvolto come rinforzo. Si tratta ancora una volta di una scelta rilevante poiché Wilson ha già adattato Pierre Boulle per David Lean con Il ponte sul fiume Kwai (The Bridge on the River Kwai, 1957) – continuerà la sua fruttuosa collaborazione con il cineasta con Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia, 1962). Vittima del maccartismo, inserito nella lista nera, lo sceneggiatore arricchisce con intelligenza la versione di Serling ponendo maggiore enfasi sulla dimensione politica della storia, distillando sulle scene evidenti allegorie sulla società occidentale, non avendo paura di prendersi ulteriori libertà con la trama e lo spirito del romanzo.
Per ragioni di budget si decide di abbassare leggermente il livello di evoluzione delle scimmie. Le prime versioni della sceneggiatura descrivevano infatti una civiltà delle scimmie molto più avanzata. I primati ereditavano la tecnologia dall’uomo e la loro prima apparizione avveniva a bordo di elicotteri (l’apertura di Fuga dal pianeta delle scimmie offrirà un passaggio inverso di questa scena qualche anno dopo). Ape City, come progettata dallo scenografo William Creber, ha un aspetto marcatamente primitivo, tribale e piuttosto spoglio, basato su materiali naturali rozzamente lavorati. Il cavallo è l’unico mezzo di trasporto. E, anche se nel 1968 il Codice Hays era ormai in disuso, il decoro impose comunque che gli esseri umani nel film, e ovviamente l’eroe, fossero vestiti con pelli di animali, a differenza del romanzo in cui la loro condizione di animali faceva sì che rimanessero costantemente nudi.
Fu scelto il cast: Edward G. Robinson è l’orango Zaius; Roddy McDowall interpreta Cornelius; Kim Hunter è la sua compagna scimpanzé Zira. Richard Zanuck approfitta del suo ruolo per sostenere la carriera cinematografica dell’allora moglie, Linda Harrison. Anche se muta, la “svestita” Nova attira l’attenzione su di sé, mettendo in risalto la sua plasticità fisica che l’aveva fatta eleggere Miss Maryland 1965.
Ben presto, la questione della raffigurazione delle scimmie appare come la principale sfida da superare. Lo studio è preoccupato per il rischio del ridicolo. Si esita tra diverse soluzioni: utilizzare vere scimmie addomesticate o creare questi esseri da zero utilizzando costumi e trucco. Per ovvi motivi, sarà questa seconda opzione a prevalere. Entra in scena il talento di John Chambers che, da vero artista, ha iniziato la professione realizzando protesi facciali, in particolare per i veterani di guerra. Lo si ritrova nei titoli di testa di I cinque volti dell’assassino (The List of Adrian Messenger, 1963), di John Huston, e nella sua divertente sfilata di star truccate. Ma è anche il creatore delle orecchie del signor Spock e delle maschere del Mission: Impossible televisivo. Il lavoro richiesto per Il pianeta delle scimmie gli farà trascorrere lunghe ore allo zoo, per osservare le diverse specie di scimmie. La credibilità passerà necessariamente attraverso l’espressività. Il trucco cercherà quindi di preservare (e valorizzare) gli occhi degli attori. La tecnica sviluppata da Chambers farà scuola. Vengono realizzate protesi per le mani e i piedi, mentre il resto del corpo è in gran parte nascosto dai costumi disegnati da Morton Haack. Gli attori dovranno poi studiare e riprodurre le espressioni facciali e i gesti delle scimmie, esercizio al quale Roddy McDowall e Kim Hunter si ispirano particolarmente.
Viene filmato un test per convincere lo studio sull’efficacia del processo. Vi partecipa Charlton Heston, circondato da Robinson vestito da Zaïus e Linda Harrison per l’occasione da Zira. Gli effetti del trucco saranno in seguito notevolmente migliorati, ma già questa prova fa scalpore. Il film baserà buona parte della sua promozione sul talento di Chambers, che offre agli spettatori qualcosa di mai visto prima. Ma applicare il trucco fu una prova talmente dura per Robinson che si convinse a cedere il ruolo di Zaius a Maurice Evans.
Nonostante una carriera imponente e diverse incursioni nel cinema fantasy, il compositore Jerry Goldsmith non aveva ancora avuto l’opportunità di scrivere una partitura per un film di fantascienza, fuori dalle convenzioni. Decide di proporre un uso imprevisto degli strumenti tradizionali (fiati e percussioni, alcuni di origine tribale) a cui si aggiungono echi prodotti elettronicamente e vari rumori metallici. Il tutto è orchestrato in modo tale da ottenere una musica esplicitamente d’avanguardia, fatta di dissonanze e suoni dalle origini indefinibili. L’assenza di regolarità ritmica crea un paesaggio sonoro completamente nuovo e rafforza il carattere a volte inquietante, a volte apertamente terrificante, di questo pianeta delle scimmie. Questa partitura, una vera pietra miliare nell’opera di Goldsmith, rimane ancora oggi una delle più grandi colonne sonore atonali della storia della musica da film.
Opera ambiziosa, che mira ad essere tanto intelligente quanto spettacolare, Il pianeta delle scimmie offre un mix equilibrato di scene di dialogo e azione. Joe Canutt e la sua squadra si occupano del coordinamento degli stuntmen. Figlio del grande stuntman e famoso regista della seconda unità Yakima Canutt, era noto che Joe aveva glissato Heston durante la corsa delle bighe Ben-Hur (id., 1959). Sebbene ridotti al minimo, gli effetti speciali ottici furono affidati a L.B. Abbott, uno stimato veterano, capo del dipartimento effetti speciali della Fox e collaboratore privilegiato delle produzioni di Irwin Allen. La sua filmografia è impressionante: Viaggio al centro della Terra (Journey to the Center of the Earth, 1959), Cleopatra (1963), Viaggio allucinante (Fantastic Voyage, 1966), Tora! Torah! Torah! (id., 1970), L’avventura del Poseidon (The Poseidon Adventure, 1972) – U (1972), L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, 1974) e molti altri.
Il budget stanziato sembra oggi irrisorio: 5,8 milioni di dollari.
Gestito così da grandi professionisti, Il pianeta delle scimmie s’impone come un grande film di fantascienza, che sa prendere per mano lo spettatore e trascinarlo verso l’ignoto. La regia di Schaffner dilata il tempo per giocare sul fascino dei grandi spazi aperti (l’esplorazione del deserto). Il viaggio è reso avvincente anche dall’uso spettacolare dello schermo panoramico.
Attraverso la moltiplicazione delle angolazioni e dei movimenti di macchina, il montaggio di Hugh Fowler è dinamico e potente nelle numerose scene d’azione. La fotografia di Leon Shamroy è particolarmente riuscita nelle sequenze in esterni, ma con un’illuminazione più convenzionale negli interni, traendo scarso vantaggio drammatico dalle deboli fonti di luce a disposizione delle scimmie. I set con le loro pareti di roccia scolpita sanno di cartone, rendendo talvolta sorpassato il film. Nonostante questo, rispettando l’evoluzione del romanzo, Schaffner distilla abilmente le informazioni per riuscire a creare sorpresa, anche se parte del mistero è già svelato dal titolo.
Fin dall’inizio, il punto di vista è quello di Taylor, il personaggio interpretato da Heston. Il suo monologo riporta immediatamente a lui. Da questo momento in poi non si smetterà mai di seguire le sue orme. Partendo nel 1972, gli astronauti della NASA tornano sulla Terra dopo sei mesi nello spazio. Hanno viaggiato alla velocità della luce, quindi attraverso il tempo, e sanno che atterreranno in un’epoca in cui tutti quelli che conoscevano non esistono più. Taylor, da parte sua, non prova alcuna nostalgia per il mondo che ha lasciato e per i suoi contemporanei, responsabili di guerre e carestie. Spera in cuor suo che gli uomini che ora troverà siano migliori. Dopo l’inspiegabile incidente che provoca una spaccatura nel continuum spazio-temporale, la nave si schianta in un lago placentare. L’equipaggio comprendeva anche una donna, morta in seguito ad un guasto del sistema di ibernazione. Per i tre uomini che riescono a districarsi a fatica nel corridoio oblungo della navicella, la sopravvivenza è come una rinascita. Il contatore riporta l’anno 3978 ma è come se fosse stato azzerato. Ad accoglierli un deserto, come una tela bianca che ha completamente ridefinito le carte del regno animale.
Abbandonate le loro tute e, dopo aver nuotato sotto una cascata, vedono risvegliarsi le loro speranze. Scoprono dei simili, una tribù primitiva di vegetariani, con un’intelligenza apparentemente sottosviluppata. Taylor dichiara che in sei mesi lui e i suoi compagni domineranno rapidamente questo pianeta: sarà l’ultima manifestazione di questa vanità tipicamente umana. Il dramma inizia sotto forma di una caccia all’uomo che farà precipitare le cose e ridurrà i tre astronauti allo status di animali braccati. Schaffner mantiene alta la suspense per quanto riguarda la rivelazione delle scimmie, riservando proprio all’ultimo momento la prima inquadratura che ci mostrerà i volti degli aggressori, evidenziati da uno zoom, a sua volta congiunto all’espressione stupita di Taylor.
È comese il protagonista, e i suoi compari, si svegliassero in quel momento dal loro stato di ibernazione. L’avventura che ha inizio può così essere paragonata a un brutto sogno, dove gli atti più semplici (parlare, fuggire) richiedono uno sforzo impossibile.
L’incubo finale dell’umanità è poi quello che l’ha riportata senza pietà allo status di bestia, annientando millenni di evoluzione.
Fatto prigioniero, Taylor diventa oggetto di studio in un laboratorio di psicologia animale. In gabbia, picchiato, trattato come una cavia, deve inghiottire il suo orgoglio. Una ferita alla gola gli impedisce di parlare per un po’, gli restano solo le mani e un barlume di intelligenza negli occhi per differenziarsi dagli altri uomini, tornati allo stato selvaggio.
Si rimane affascinati dallo spettacolo delle scimmie e dall’inquietante “umanità” dei loro gesti. Ma chi imita chi? Il pianeta delle scimmie è un mondo sottosopra. Questo improvviso capovolgimento di prospettiva e di logica antropocentrica dà a Taylor l’impressione di trovarsi in un manicomio. In effetti, Taylor scoppia in una risata sguaiata al gesto derisorio del collega Landon che pianta una minuscola bandiera americana sul terreno di questo nuovo pianeta, come fosse il riflesso di un conquistatore che non può fare a meno di esprimere la sua natura. La dottoressa Zira, una scienziata con idee progressiste, prenderà in simpatia l’uomo che lei chiama “occhi vivi”. Ma al di là dello sguardo, è la scrittura che permetterà la comunicazione. Taylor rivendica la sua identità affermando il suo nome. Quando finalmente riacquista l’uso della parola, come spinto al limite dai suoi carcerieri, le sue prime frasi sono urlate, imponendosi con tanto maggiore effetto quanto accentuate da un sorprendente primo piano del volto infuriato di Heston: “Toglimi quelle zampe puzzolenti di dosso, dannata sporca scimmia sporca!” La sua intelligenza rappresenta un pericolo mortale per gli oranghi, rappresentati dal dottor Zaïus, custode dei segreti del pianeta che soprattutto non vuole vedere l’uomo ritrovare la ragione e riacquistare la capacità di distruggere ciò che lo circonda, sia esso il suo ambiente o i suoi stessi fratelli.
La casta degli oranghi (ma la forza militare è in mano ai gorilla) agisce come una sorta di clero, diffondendo miti per giustificare il trattamento inflitto agli esseri umani e inventando la figura revisionista del Legislatore per liberarsi dalla propria eredità. Di fronte a questi anziani che negano consapevolmente l’evidenza adottando la postura delle tre scimmiette, gli scimpanzé Cornelius e Zira si rifiutano di nascondere il volto. La loro etica scientifica li porta a schierarsi dalla parte degli umani e a tradire la loro razza. Decidendo di venire in aiuto di Taylor, sacrificando l’onore alla verità, sanno che per loro non ci sarà alcun ritorno possibile. Rimangono tuttavia legati per istinto a una certa visione del regno animale, e l’immagine inquietante di Taylor che lega Zaius al ceppo di un albero appare a loro – così come a Nova – come un gesto sacrilego.
Opera di intrattenimento, ma non incompatibile con un discorso politico e umanista che sfida il pubblico, anche se rientra nel quadro ipocritamente rassicurante della rappresentazione fantascientifica. Insieme a 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968), di Stanley Kubrick, apparso quasi contemporaneamente, questo film avrebbe rivoluzionato alle fondamenta il genere. A dimostrazione di questo assunto, il film di Schaffner addirittura elimina tutto l’umorismo e la comicità presenti nel romanzo: Il pianeta delle scimmie rivela il volto di un’umanità finalmente liberata dalla patina lucida della civiltà. La sequenza che precede i titoli, con il suo monologo metafisico, dà il tono: l’uomo e il suo rapporto con il cosmo sono il soggetto del film.
La favola di Boulle si rivela terreno ideale per un film che rispecchia il suo tempo. La società americana degli anni Sessanta è infatti attraversata da notevoli disordini: l’assassinio di John e Robert Kennedy, di Malcom X e Martin Luther King, la lotta per i diritti civili, le proteste contro la guerra del Vietnam. Tragedie che sono come tanti traumi e che provocano una dolorosa disillusione nei confronti della democrazia. È anche il periodo della Guerra Fredda, della Primavera di Praga e del Maggio ‘68. Il Pianeta delle Scimmie è scosso da conflitti simili. Le scimmie hanno sostituito gli umani ma continuano a riprodurre i loro peggiori errori. I parallelismi sono tanto numerosi quanto evidenti, evocando di volta in volta le ore buie dell’Inquisizione, la schiavitù, il massacro dei bisonti. In questo mondo dove la sopravvivenza della scimmia dipende dallo sterminio dell’uomo, il processo a Taylor si riferisce direttamente alle controversie avvenute dopo la conquista delle Americhe per stabilire se gli indiani fossero uomini o animali, se possedessero un’anima, in quale caso dovevano essere convertiti, e se necessario con la forza. Il film prende di mira anche l’oscurantismo religioso e la cecità che esso dimostra nel mantenere intatti i dogmi emanati (Giordano Bruno, Galileo, Darwin). Ciò che fa indignare Taylor riguardo alle scimmie potrebbe quindi essere imputato altrettanto facilmente alla razza umana. Di fronte agli eventi orribili che vivrà, imbavagliato, l’eroe dovrà abbandonare l’atteggiamento rassegnato e il cinismo che mostrava in precedenza e combattere, come hanno fatto prima di lui altri ribelli e martiri che hanno visto messi in discussione i propri diritti.
Dopo aver conquistato la libertà, pistola in mano, Taylor cavalca con Nova verso il suo destino, tornando alla fonte, nel cuore della zona proibita. Ma alla fine della spiaggia fa la terrificante scoperta che tutti ormai conosciamo: la Statua della Libertà sommersa nella spiaggia che emerge in parte. Un abisso si apre davanti a lui come davanti allo spettatore, realizzando il senso pieno dell’epica vissuta fino a quel momento. Questa conclusione del film e la sua figurazione scioccante, che parla da sola all’immaginazione, si deve a Rod Serling, uno specialista in questo tipo di rivelazioni finali che trasportano improvvisamente i suoi personaggi in una dimensione completamente nuova.
Distinguendo nel suo romanzo la Terra e il pianeta delle scimmie, Boulle lanciava un avvertimento. Fondendo i due mondi, Serling si dimostra molto più radicale (giustifica anche il fatto di aver fatto parlare le scimmie in inglese, rispetto allo strano idioma del romanzo). Taylor è sempre rimasto a casa per tutto quel tempo. La distanza spazio-temporale promessa dai viaggi interstellari non è riuscita ad allontanare l’uomo da ciò che gli pesava sulla Terra. Al contrario, lo ha immerso a capofitto nei suoi crimini.
Taylor sperava che il futuro portasse un mondo migliore. Ma questa è la cosa peggiore che potesse capitare.
Il pianeta delle scimmie va oltre la semplice favola allarmistica sull’umanità e finisce per giustificare quasi completamente il comportamento delle scimmie. Mantenendo gli uomini nello stato di bestie, in un certo senso non si è fatto altro che risparmiare al pianeta un nuovo olocausto. Per quanto Taylor abbia dimostrato di essere un animale dotato di ragione, riesce solo a vedere che la natura umana è basata su una logica distruttiva. La sceneggiatura prevedeva che Nova rimanesse incinta, come nel romanzo, ma la scena è stata tagliata in fase di montaggio. Eliminando questa scena, che avrebbe portato a un finale aperto, il film si conclude in modo molto più disperato, una vera e propria fine del percorso dopo il quale non c’è più nulla da ricostruire, la fine della speranza per l’umanità. Anche la colonna sonora cessa, per lasciate spazio al rumore delle onde. Taylor in ginocchio sembra pronto a farsi inghiottire da questo simbolo della vita che è l’oceano, un contrappunto tragicamente ironico che irriderebbe l’ultimo degli esseri umani. Che rivolge ai suoi simili l’invettiva: “Maledizione a voi!… Dio vi mandi tutti all’inferno!” Inutile, considerato che non esistono più i responsabili nel presente, che ormai è solo il suo. Ma al di là dello schermo, condanna all’inferno il pubblico, l’umanità di oggi.
Il pianeta delle scimmie sarà uno dei grandi successi del 1968, incassando più di 30 milioni di dollari. Questo permise al romanzo di Boulle di diventare un bestseller. Considerato un prodotto di “genere” è penalizzato agli Oscar ma col tempo si conferma come un’opera che ha segnato gli animi di diverse generazioni. Grazie alla cura posta nella sua realizzazione, ma soprattutto alla forza e all’audacia del suo racconto, il film rappresenta ancora ai nostri occhi una pietra miliare nella storia del cinema e più in generale nella storia culturale del XX secolo. Un capolavoro immortale, dove tutti i sequel, i remake e i reboot avviati successivamente appaiono solo come variazioni su un tema già ampiamente trattato.
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