Colazione da Tiffany. Il mondo si divide tra quelli che lo hanno visto e quelli che lo conoscono. La pellicola di Blake Edwards si è impressa così tanto nell’immaginario collettivo che alcuni elementi particolarmente iconici – a partire dalla colonna sonora, Moon River, per non parlare dello splendido, indimenticabile e irresistibile viso della protagonista Audrey Hepburn – sono diventati parte del nostro dna culturale di simboli e rimandi. Emblema di un’epoca, di una moda, di un modo d’essere, di una visione del mondo.
Uno di quei film, appunto, che non c’è affatto bisogno di vederli per conoscerli. Il terrazzino dell’Upper East Side di New York, la pioggia battente, il fascino irresistibile di uno scrittore squattrinato con le sembianze di George Peppard. Un campionario di icone, archetipi e simbologie così potente da far dimenticare, tanto agli spettatori quanto ai semplici conoscitori, che alla base del fortunatissimo film c’è uno splendido romanzo di uno scrittore importante come Truman Capote.
Ma non è stato soltanto l’enorme successo del film a far dimenticare il romanzo. Alla base c’è anche, e soprattutto, il fatto che si tratta di opere decisamente diverse, che il lavoro di sceneggiatura operato da George Axelrod non è un semplice adattamento, ma uno stravolgimento in piena regola.
Al punto che Capote si disse tutt’altro che soddisfatto del risultato finale.
Il fulcro dell’intreccio è innegabilmente l’irresistibile protagonista, Holly Golightly, giovane bellissima ma sventurata, in fuga a New York dal Texas con la sola compagnia di un gatto senza nome e che per mantenersi fa la escort. La sua centralità è ovviamente mantenuta nel film (anzi, probabilmente, il fascino di Audrey Hepburn l’ha decisamente accentuata), ma è il personaggio in sé a essere diverso. Nel romanzo di Capote è un personaggio assolutamente più complesso, selvaggio, in più di un’occasione del tutto cinico. Il passato tormentato (nel romanzo rammentato e indagato con più insistenza, più approfondito e di conseguenza del tutto centrale per la comprensione delle dinamiche psicologiche della protagonista) è funzionale a una stringente consequenzialità di causa ed effetto (tipica della migliore narrativa realistica americana del dopoguerra), per cui l’infanzia difficile e la fuga da un matrimonio infelice (nel romanzo Holly, che in realtà si chiama Lula Mae, è una sposa appena adolescente) l’hanno trasformata in una ladra senza troppi scrupoli.
Nel film, Holly diventa una ragazza sventurata vittima degli eventi, dolce, ingenua. E soprattutto innocente. Un ritratto probabilmente indispensabile a giustificare la sua vicenda, per l’epoca più che scandalosa, di fuggiasca dal tetto coniugale e accompagnatrice a pagamento. Il viso celestiale e incolpevole della Hepburn fece il resto.
Basti pensare che Capote, scrivendo il libro, tratteggiando la sua eroina, aveva in mente una femme fatale con le fattezze di Marylin.
Anche Paul, lo scrittore squattrinato che ha fatto sognare generazioni di fanciulle innamorate strimpellando Moon River, è trattato in maniera differente. Nel film è il più classico dei coprotagonisti, la cui vicenda – e la cui stessa esistenza – è una sorta di emanazione di quella del personaggio principale, funzionale a essa. Nel romanzo invece quella di Paul è la voce narrante, che in flashback racconta tutta la storia.
Soprattutto, è un sessantenne omosessuale lontano anni luce dall’affascinante artista che vediamo agire nella pellicola.
Infine, il solito gioco di soppressione e inserimento di alcuni personaggi, che se normalmente è insito a ogni operazione di adattamento, in questo caso porta ulteriormente allo stravolgimento dell’impianto del romanzo. La sceneggiatura inserisce un’amante per Paul, inesistente nel romanzo, ma soprattutto sopprime un personaggio chiave dell’opera di Capote, vale a dire il barista Joe, nel cui locale si svolgono alcuni episodi cruciali. E che, oltretutto, è perdutamente innamorato di Holly.
Ma ciò che pone film e romanzo a una distanza siderale è senza dubbio il finale.
L’intento di Capote non era affatto quello di dar vita a una commedia romantica.
Nessun bacio con tanto di pioggia purificatrice e risolutrice, nessun sottotesto rimandante a un vissero felici e contenti di prammatica. Al contrario, Capote fa partire Holly (tra l’altro dopo un suo trasferimento in Brasile con tanto di gravidanza inattesa e aborto spontaneo), semplicemente dopo essersi fatta promettere da Paul che si prenderà cura del suo amatissimo gatto (di certo amato più di Paul) senza nome.
In sostanza, il libro ha il coraggio spericolato (e corrosivo) di raccontare un rapporto tutt’altro che convenzionale, un’amicizia speciale, esclusiva, o se si preferisce un amore sublimato, tra un uomo maturo dal carattere aperto e complesso al tempo stesso e una ragazzina anarchica e selvatica. Un rapporto libero in cui ognuna delle parti vive le proprie storie. In cui sono certo uno salvezza dell’altra, ma in un modo del tutto diverso da quello del film.
Un coraggio che Hollywood, stritolato dal bigottismo dei primi anni Sessanta, ancora avvelenati dal più spinto dei puritanesimi, non poteva certo avere. Non solo il rapporto libero e aperto descritto da Capote era scandaloso e inaccettabile, intraducibile sul grande schermo, ma quel finale così diverso e conciliante scelto da Edwards era pressoché obbligatorio, la necessaria ricomposizione della frattura generata da Holly in fuga dal matrimonio, che in quanto donna deve riscattarsi e redimersi facendosi salvare da un eroe maschio e restaurando la norma ricostruendo lo schema familiare uomo-donna-animale domestico (e ovvi bambini che verranno, sottintesi eppure del tutto espliciti).
Il successo epocale del film suggerisce come il pubblico, in quel particolare frangente, avesse bisogno di questo tradimento del plot originario, di come avesse bisogno, in tempi bui, di una fiaba che lo facesse sognare.
E come probabilmente ne abbia bisogno ancora oggi.
Lasciando stare il perbenismo borghese alla base dell’adattamento cinematografico, sorvolando su implicazioni oggi particolarmente fastidiose (per non dire inaccettabili), resta il fatto che, film e romanzo, alla fine raccontano della fuga di una giovane sognatrice da una prigione esistenziale. E che, tanto nel libro quanto nel film, pur se in modi diversi e con tutti i distinguo del caso, alla fine riesce, lasciandosi il passato alle spalle.
E forse è quello, proprio quello, il segreto del successo del film, il bisogno che ancora palpita dietro ogni sequenza. Sognare di poter scappare. E di non essere riacciuffati.
Lascia un commento