In Toscana aleggia la morte. Un pazzo devasta da decenni la campagna intorno a Firenze. Giovani innamorati vengono brutalmente assassinati. Il terrore si diffonde nella popolazione. La polizia brancola nel buio e non riesce ad arrestare quello che è stato battezzato “Il Mostro di Firenze”. Lo scrittore Andreas Ackermann (Leonard Mann), che da tempo sta trascinando un romanzo su quanto accaduto, si “ridesta” scosso da un altro omicidio nel 1985 e riprende a scrivere, ma da un’altra prospettiva: intende approfondire la psiche dell’ignoto colpevole, cercando di scavare in profondità nella mente di questo “mostro”. E più si avvicina a comporre il puzzle definitivo della vicenda più si immerge in un labirinto di odio, eccesso e paranoia.

Cesare Ferrario preferisce non emulare lo slasher allora imperante, ma in declino nel cinema italiano, dirigendo questo Il mostro di Firenze (1986). Basato su fatti realmente accaduti, il regista realizza un’opera inaspettata sugli abissi umani perché fuori tempo per il cinema nazionale. Con perseveranza e pacatezza quasi disarmante, la psicologia dell’autore degli efferati delitti viene decodificata strato dopo strato. Lo scrittore – che Leonard Mann (Leonardo Manzella) interpreta con una accuratezza oggettiva – diventa il tramite di un individuo che porta con sé traumi, disturbi sessuali e complessi edipici fin dalla prima infanzia. Evidenti le similitudini con l’approccio mentale del protagonista di Manhunter – Frammenti di un omicidio (Manhunter, 1986) con il serial-killer. Ovviamente Ferrario non può aver visto il film di Michael Mann, apparso lo stesso anno del suo.

Il “Mostro” è membro della società, assimilato e anonimo, fino a quando gli argini si rompono e accade l’inevitabile: l’odio viene incanalato nella canna di una Beretta (anche questa scelta anomala, considerato che gli slasher sono alla “lama di coltello”). Ogni volta che il suo dito preme il grilletto, respinge i suoi demoni, fino all’esplosione successiva. Una psicologia molto familiare, chi è un appassionato di cinema e sa qualcosa del genere non si sorprende. Ma il modo in cui il regista costruisce il film evita ogni incertezza e non indulge in goffi espedienti. Si vuole far comprendere perché le cose sono andate in quel modo e perché una persona può sempre diventare un assassino.

All’epoca della sua uscita, la critica non ha accettato una certa lentezza del Il mostro di Firenze, modalità narrativa utilizzata per descrivere i timori di una città. La paura di uno sconosciuto il cui confine tra normale e anormale è stretto quanto il nostro. Firenze non ha nulla di idilliaco, nessuna immagine da cartolina: e in questo Ferrario anticipa la visione che Ridley Scott ne darà in Hannibal (id., 2001). Un velo di nebbia e di tristezza incombe sulle case color terracotta, sulle strade strette, sui ponti curvi. L’incertezza generale cala come un sudario sull’antica “casa” fiorentina di Cosimo il Vecchio de’ Medici. L’amore furtivo è come punito dalla morale tradizionale e dalle riserve derivanti dall’essere un paese cattolico. La magistratura sembra paralizzata, mentre la violenza della polizia manifesta tutta la sua inefficacia.

Per non parlare della rigidità e freddezza esistenti nel rapporto genitore-figlio, della mancanza di empatia per la quale nessun albero di Natale decorato con luccicanti orpelli, nessun battaglione di peluche può fare qualcosa: a un certo punto la vita gira l’interruttore.

La suggestiva musica di Paolo Rustichelli funge da base per questo psicodramma, con il figlio che si dimostra talentuoso erede del famoso padre Carlo. Archi ossessivi nei registri acuti si muovono su frammenti infinitamente elegiaci di una melodia di pianoforte, con passaggi corali alienati. Rustichelli colora le voci minacciose da lontano che il “Mostro” sembra sentire continuamente nella sua testa – e i colpi occasionali di tamburo fanno sobbalzare, quasi come se un coltello colpisse i canali uditivi dello spettatore.

De Il mostro di Firenze esistono più versioni: quella italiana fu ritirata, censurata e rimessa in circolo due mesi dopo la sua uscita. Distribuita dalla Titanus, alla fine incassò la strabiliante cifra di tre miliardi, la pellicola fu sequestrata perché trattava un argomento di cui la magistratura si stava occupando, nonostante non fosse emerso nessun indizio ma, soprattutto, lo sviluppo della trama fosse totalmente distante dalla verità (mai svelata compiutamente sino ad oggi). Alla fine, per non turbare i parenti delle vittime del serial-killer, si decise di non distribuirlo solo in Toscana (sic!). Questi eventi permisero all’orrendo L’assassino è ancora tra noi (1986), di Camillo Teti, di apparire indisturbato e di affermarsi come il primo film sul “Mostro”.

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