Con un budget ridotto, la RKO non corse grossi rischi producendo Odio implacabile (Crossfire) nel 1947. Alla sua uscita, il film di Edward Dmytryk raccolse comunque un buon incasso e ottenne cinque nomination agli Oscar nelle prestigiose categorie miglior attore non protagonista (Robert Ryan), migliore attrice non protagonista (Gloria Grahame), miglior regista, miglior film e miglior adattamento. Uscito lo stesso anno di Barriera invisibile (Gentleman’s agreement) di Elia Kazan e su un argomento simile, non ne vinse nessuno (il film di Kazan vinse tre premi su sette nomination) ma ottenne rapidamente consensi e successo di critica. Odio implacabile è ancora oggi un film incisivo, i cui aspetti da romanzo poliziesco sono fondamentalmente accessori rispetto alla questione generale dell’intolleranza e del pregiudizio razziali.
Muovendo da un misterioso omicidio, Odio implacabile è incentrato sulla morte di un certo Joseph Samuels (Sam Levene), un uomo innocuo che viene ucciso apparentemente senza motivo. Il sospetto cade su un gruppo di soldati reduci dal fronte, in particolare “Monty” Montgomery (un focoso Robert Ryan), che è chiaramente un delirante antisemita, che dichiara al capitano di polizia Finlay (Robert Young, in una performance attentamente misurata) che Samuels era uno di quei ragazzi che durante la guerra hanno giocato sul sicuro (“conosci il tipo. Alcuni di loro si chiamano Samuels, alcuni di loro hanno nomi più divertenti”). Monty tenta anche di attribuire l’omicidio all’irreprensibile caporale Arthur “Mitch” Mitchell (George Cooper), ma il capitano Finlay non si lascia ingannare dai tentativi di Monty di depistarlo. Mitch, nel frattempo, si ubriaca e vaga in una squallida sala da ballo, dove incontra Ginny Tremaine (Gloria Grahame), che gli offre la chiave del suo appartamento in modo che possa dormire per incontrarlo dopo che avrà finito il lavoro. Intanto il sergente Peter Keeley (Robert Mitchum), inizia a sommare i vari indizi e scopre che Mitch è innocente, convincendo il capitano Finlay a seguire le sue indicazioni. Finlay decide di tendere una trappola per Monty, quando si convince della sua responsabilità per la morte di Samuels – che si rivela letalmente efficace nel finale del film.
Spesso classificato come noir e una delle prime pellicole di Hollywood a trattare l’antisemitismo, il film è tratto dal romanzo di Richard Brooks del 1945 The Brick Foxhole. Brooks, allora in servizio nel Corpo dei Marines, fece del pregiudizio anti-gay – e della conseguente violenza che genera – il fulcro del suo libro. Tuttavia lo sceneggiatore John Paxton fu costretto a virare sull’antisemitismo per placare il Codice di produzione, che proibiva qualsiasi menzione della cultura gay nel cinema dell’epoca. Ciò non evitò che il film subisse la censura e portò persino Edward Dmytryk e il suo produttore Adrian Scott a comparire lo stesso anno davanti alla Commissione speciale sulle attività antiamericane (Comitato per le attività antiamericane della Camera). Dmytryk viene condannato a sei mesi di prigione e a una multa di 500 dollari; Scott rischiò un anno di detenzione e gli venne comminata una multa di 1.000 dollari. Entrambi furono inclusi nella cosiddetta lista nera “Hollywood Ten” e Dmytryk fu l’unico a ritrattare quando nel 1951 (dopo un autoesilio in Inghilterra e quattro mesi e mezzo di detenzione scontati al suo ritorno negli Stati Uniti) si presentò nuovamente davanti alla Commissione e fornì i nomi di 26 personalità affiliate al movimento comunista.
Odio implacabile può curiosamente essere definito il film dei tre Robert: Robert Young nel ruolo dello scaltro ispettore, Robert Ryan in un ruolo tagliato su misura per la sua corporatura imponente e la sua arroganza che suggerisce da un momento all’altro uno scoppio di violenza, e infine Robert Mitchum nel ruolo di un buon amico che lotta per tutto il film per proteggere gli innocenti svolgendo la propria indagine. A completare il trio, si aggiunge la presenza sempre luminosa di Gloria Grahame nei panni di una barista amareggiata per il suo passato e piuttosto caustica ma in definitiva molto dolce e compassionevole verso il giovane soldato accusato di omicidio.
Ryan, perfetto nei ruoli di persone gravemente malate e squilibrate, qui interpreta un veterano pieno di odio contro gli ebrei. Non uno psicopatico assetato di sangue, bensì un “antisemita ordinario” che, presumibilmente, attribuisce agli ebrei, e in particolare a un uomo comprensivo e sereno che incontra per caso, le responsabilità degli orrori a cui dovette prendere parte durante la guerra, e della morte dei soldati che conosceva. Un ragazzo pieno di odio e arroganza che finisce per cadere.
Il personaggio dello stakanovista Mitchum – qui già a circa 30 film dopo soli cinque anni di carriera – dà inizialmente l’impressione di essere solo un complemento: l’attore, in termini di tempo di apparizione, è solo sporadicamente sullo schermo. In quel periodo sul punto di diventare una celebrità, Mitchum diventa il perno della vicenda collegando tutti i personaggi e andando a interrogare prima della polizia il suo compagno accusato dell’omicidio. Attraverso Keeley emerge rapidamente uno dei motivi principali del film: la vita dei soldati nel dopoguerra, in cui l’assistenza psicologica non esisteva ancora e gli uomini dovevano fronteggiare un nemico comune (il trauma) invisibile. L’alcol aiuta, così come le donne, ma entrambi sono rappresentati di sfuggita sullo schermo, come impone la censura.
E qui entra in scena Gloria Grahame. Appare sullo schermo solo per alcune scene del film, ma il suo comportamento stanco del mondo fa sì che ogni momento lasci il segno; rappresenta una donna emarginata, alla deriva in un mondo a cui non importa se vive o muore. In effetti, nella maggior parte dei suoi lavori cinematografici, le parti di Grahame sono circoscritte, ma con un forte impatto sulla vicenda; è come se la sua personalità fosse così intensa che lo schermo riuscisse a malapena a contenerla. Per Grahame, il film è stato un altro passo verso la vera celebrità grazie a un ruolo complesso e pessimistico che le ha permesso di mostrare la sua vera gamma emotiva come attrice.
Il film deve molto anche alla sua fotografia e al suo direttore, J. Roy Hunt, 70 anni all’epoca del film e tecnico esperto fin dagli albori di Hollywood. La tecnica dell’illuminazione e lo stile di ripresa di immagini volutamente sottoesposte e spesso illuminate da un’unica fonte di luce, produce splendidi chiaroscuri che sottolineano i contrasti insiti nella storia. Questa tecnica è illustrata dall’inquadratura iniziale, in cui un uomo viene ucciso da una scazzottata di cui ci vengono mostrate solo le ombre. La cinematografia aggressiva e frenetica di Hunt produce audaci tratti pittorici, spesso lasciando lo schermo nell’oscurità completa prima che un dettaglio emerga durante una scena – mostrando un’audacia molto più all’avanguardia rispetto ai film hollywoodiani convenzionali dell’epoca…
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