Talvolta adattare romanzi, novelle e opere teatrali per lo schermo, risulta essere decisamente una pessima idea, anche se di mezzo c’è un regista importante come Elia Kazan e uno sceneggiatore d’eccezione come il drammaturgo Tennessee Williams. Capita soprattutto quando alla base non c’è l’esigenza di raccontare una storia, ma la necessità di sfruttare un volto di sicuro successo e costruire attorno a esso un caso, un qualcosa capace di farne parlare. È l’inevitabile rovescio della medaglia di un sistema, quello cinematografico, che è anche, e soprattutto, business e mercato.

Elia Kazan

A metà anni Cinquanta, nell’America bigotta e puritana ingolfata nel più cupo maccartismo (cui lo stesso Kazan non fu affatto estraneo), la Warner decise di puntare su una giovanissima attrice e soubrette sconosciuta, allieva dell’Actor’s Studio di New York, Caroll Baker, con l’idea di farne una nuova Marylin Monroe.
Un termine di paragone talmente alto e inarrivabile da rendere l’impresa fallimentare già in partenza. La generosa e comunque bravissima Baker, infatti, della Monroe non aveva – né avrebbe mai potuto avere – alcunché. Mancava, in particolare, quella malinconia, quel dolore indicibile travestito da frivolezza che costituiva l’essenza di quella vertigine che era e rappresentava Marylin. 
Ma, messo da parte con ovvia logica il paragone inglorioso e impossibile, l’operazione commerciale del suo lancio presso il grande pubblico si concretizzò in un film problematico e affatto riuscito, ovvero Baby Doll, uscito nelle sale nel 1956.

Ispirato all’opera teatrale 27 vagoni di cotone, scritta dallo stesso Tennessee Williams, il film, nello script, non conserva il tono allusivo e sfumato del dramma. In generale, lo Williams sceneggiatore rispetto allo Williams drammaturgo perde mordente, ritmo, capacità di evocare senza dire, profondità nell’indagine psicologica dei propri personaggi.   
Resta la grande maestria nel rendere il clima opprimente del sud, pigro e rallentato, carico di odori, stagnante. Ma, oltre questo, c’è poco altro. La storia di questo proprietario di una piantagione di cotone caduto in disgrazia, sposato con una minorenne che, stando ai patti stipulati con il suocero, non può toccare prima che compia ventun anni raggiungendo la maggiore età (personaggi che uno sciagurato doppiaggio italiano trasforma in Angelo e Bambola), non decolla, si arrotola e si incarta in un eccesso di dialoghi senza mai trovare un ritmo adeguato. E il pur splendido bianco e nero della fotografia (firmata dal genio di Boris Kaufman) e alcune notevoli trovate registiche di Kazan, non bastano a riscattare la fiacchezza generale. 

Tennessee Williams

Eppure, il film è a suo modo rimasto nella storia, consegnando immagini memorabili alla fantasia collettiva. La Baker che dorme in una culla di ferro con la celeberrima camicia da notte corta, il Baby Doll appunto, destinato da quel momento a fare epoca nella storia del costume e della moda, succhiandosi il pollice, è un’immagine iconica e indimenticabile. Che all’epoca fece scandalo e rumore. Perché al di là della donna che si comporta da bambina, ci sono anche le effusioni di Bambola con il terribile Direttore Vaccaro (siciliano nell’originale, spagnolo nel doppiaggio), che porta l’automazione in città (aggravando la crisi economica di Angelo) e seduce la ragazza, fino a possederla e a farle perdere la verginità non solo in un rapporto adultero, ma quando è ancora minorenne. 

Un film del tutto privo di credibilità ma che fece scalpore. Ed epoca. Una sorta di Basic Instinct ante litteram: modesto e inverosimile, eppure iconico e conturbante. 
Ma del resto, come ebbe a sottolineare – non senza polemica – François Truffaut, l’obiettivo di fondo non era quello di raccontare una storia, ma di consegnare un ritratto femminile e dirigere un’attrice. Possibilmente, suscitando scandalo e scalpore. 
Da questo punto di vista, pur senza aver minimamente ricordato Marylin, l’operazione poté dirsi a suo modo perfettamente riuscita. 

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