I film “noir” giocano spesso sull’instabilità che regna nella mente dei personaggi così come nei luoghi in cui si muovono. La dimensione onirica si impadronisce della realtà, la trasgredisce o la distorce, in un’estetica che privilegia il gioco delle allucinazioni. I fantasmi del cinema muto tedesco e il romanticismo gotico alimentano suspense, fantasia e paura diffondendo un sentimento di insicurezza che si adatta alle inquietudini del pubblico. Nel 1944 il genio di Fritz Lang sintetizzò queste componenti disordinate in La donna del ritratto (Woman in the Window), una favola crudele costruita su una spirale morbosa che inizia con l’incontro di una giovane donna dalla morale discutibile e di un professore di mezza età. Una situazione di partenza abbastanza banale per una storia il cui potenziale realistico è l’adulterio negoziato con venalità solo che la censura vieta di occuparsi di prostituzione e il signore invitato dalla signora non ha rapporti sessuali con lei, ma si ritrova vittima di un imprevisto che fa di lui un assassino. Una svolta noir che rende tutto più interessante e pericoloso.
La storia: il professor Richard Wanley (Edward G. Robinson), un attempato professore, saluta la sua famiglia in partenza per le vacanze prima di recarsi al suo club per un drink. Quando arriva, racconta ai suoi amici di aver notato un dipinto di una giovane donna molto bella esposto nella vetrina di una galleria d’arte e viene preso in giro, con scabrose allusioni alle “notti selvagge dei single”. Tornando a casa, si ferma a guardare nuovamente il ritratto e rimane improvvisamente sorpreso: nella finestra si staglia il riflesso della modella. Invita la giovane donna Alice Reed (Joan Bennett) a bere qualcosa e questo lo porta a casa sua. Mentre stanno chiacchierando innocentemente, il fidanzato di Alice Claude Mazard (Arthur Loft) irrompe, pazzo di gelosia, e litiga con Wanley. Quest’ultimo ha difficoltà a difendersi, ma uccide accidentalmente l’uomo con le forbici che Alice gli porge. Alice e il professore, presi dal panico, escogitano un piano per smaltire il corpo: Wanley va a prendere la sua macchina e riesce a nascondere il cadavere nel bosco dove si strappa la giacca, si ferisce una mano e tocca un’edera velenosa. Wanley immagina di essere fuori pericolo, ma alla fine il corpo viene ritrovato.
L’ispettore di polizia assegnato al caso è un caro amico di Wanley, il che gli impone di ascoltare educatamente le sue speculazioni e persino di discuterne. Nel frattempo, Alice viene contattata dal ricattatore Heidt, che afferma di essere a conoscenza dell’omicidio e vuole soldi. Informa Wanley del ricatto; quest’ultimo decide allora di confessare tutto alla polizia ma non potendo affrontare lo scandalo e la vergogna, si prepara ad avvelenarsi. Heidt, sospettato del delitto, viene nel frattempo a sua volta ucciso dalla polizia durante uno scontro a fuoco e muore davanti a casa di Alice; la donna chiama Wanley per dirgli che sono salvi, ma Wanley non sente squillare il telefono, avendo apparentemente già ingoiato il veleno. La telecamera poi torna indietro e mostra l’uomo accasciato su una poltrona nel suo club: sta dormendo e tutta la vicenda non è stata altro che un incubo! Immensamente sollevato quando si sveglia, torna a casa passando davanti alla vetrina della galleria d’arte: gli si avvicina una donna dall’aspetto provocante ma l’insegnante la evita affrettandosi. La sua voglia di avventura è completamente svanita.
Giustificato dallo stesso Lang come escamotage per rendere plausibile l’intera storia che appariva al regista tedesco poco credibile1, il finale sfida gli obblighi del Codice di Produzione dell’epoca che imponeva che Wanley, avendo ucciso, dovesse essere punito. Lang fa del film una vertiginosa variazione sulla tentazione come avrà modo di precisare “Non ho mai detto che un uomo non possa andare a bere qualcosa con una giovane donna. Ho detto: state in guardia. Il film segue in modo perfettamente logico il susseguirsi di eventi che una mancanza di attenzione può causare”2.
Il film permise a Joan Bennett di ricongiungersi con Lang che l’aveva diretta in Duello mortale (Man Hunt, 1941) e con il quale avrebbe formato, insieme al tumultuoso marito Walter Wanger (che anni più avanti sparò all’uomo che credeva essere l’amante della moglie), la compagnia Diana. Uno straordinario Edward G. Robinson si mostra perfettamente a suo agio nei panni del pacioso professore: chiunque guardi il film non si stupirà nell’apprendere come l’attore rumeno fosse uno straordinario collezionista d’arte nella sua vita privata, mentre forse farà più fatica a immaginarlo nei panni dei gangster che hanno caratterizzato la prima parte della sua carriera al punto da rimanergli attaccati come un cliché. La misurata performance ne La donna del ritratto offre un’idea delle capacità recitativa di Edward G. Robinson che – nel giro di un triennio – metterà in fila capolavori come La fiamma del peccato (per Billy Wilder, 1944), Lo straniero (per Orson Welles, 1946) e Strada scarlatta (ancora per Fritz Lang, 1946). Ma questa è un’altra storia…
1 Si veda l’intervista riportata ne Film noir, Patrick Brion, Editions de la Martinière, Paris, 2004;
2 Id.
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