Nel 1923 Raymond Radiguet, novello enfant prodige della letteratura francese, un Rimbaud meno illuminato ma più sensuale e decadente, pubblicava il suo romanzo d’esordio, il conturbante e scandaloso Il diavolo in corpo. Purtroppo sarebbe stato anche l’ultimo, visto che una febbre tifoidea lo stroncò qualche mese più tardi, uccidendolo appena ventenne e privando il panorama letterario di una penna d’eccezione.
Bastò tuttavia quel solo romanzo a consacrare Radiguet nell’Olimpo della storia della letteratura. Il libro, che racconta l’amore proibito tra un adolescente e un’adultera, sposa di un soldato appena partito per la guerra, alla sua uscita uno scandalo enorme e inevitabile. Non solo la relazione extraconiugale con un ragazzo minorenne, ma anche, forse soprattutto, il tradimento che si consuma mentre il marito è a compiere il suo dovere per la patria, infrangendo in un colpo solo famiglia, patriottismo e tabù sessuali.
Se lo scandalo, e l’attrazione morbosa esercitata dallo sfrenato erotismo, facilitò e non poco l’immediato successo del romanzo, la sua persistenza nel tempo, per fortuna, ne svelò il reale valore. Il diavolo in corpo è infatti, con la sua prosa tutt’altro che accondiscendente, in assoluta controtendenza con il rotondo lirismo decadente, ma al contrario ruvida e asciutta, un autentico capolavoro.
Destinato a riproporsi nei decenni, fino a oggi, con potenza pressoché intatta. Praticamente ovvie le molteplici riduzioni cinematografiche. Tra cui spicca quella di Marco Bellocchio del 1986.
Il grande italiano usa tuttavia il romanzo di Radiguet alla stregua di un canovaccio, una semplice traccia stravolta sin dalle linee generali della trama. La vicenda viene trasposta nell’Italia di inizio anni Ottanta, la relazione è tra un giovanissimo studente liceale e la giovane e bella moglie di un terrorista sotto processo. Al di là del plot, nel film c’è tantissimo Bellocchio – la follia, di cui è tacciata la protagonista adultera, la repressione esercitata dalle istituzioni, il terrorismo (quest’ultimo tuttavia, almeno in questo caso, relegato totalmente sullo sfondo) – e ben poco Radiguet. La forza eversiva del sesso, la passione come atto corrosivo e antiborghese, lascia spazio alle riconoscibilissime atmosfere bellocchiane, surreali e allegoriche, spesso ermetiche e oscure, con l’avvio di un discorso relativo alla chiusura degli anni Settanta, con la condanna senza appello alle velleità della lotta armata, che in questo caso si esplicita in un discorso confuso e irrisolto, e che troverà compimento nella filmografia di Bellocchio molti anni dopo, con Buongiorno, notte.
Di comune, tra romanzo e film, pare esserci di fatto soltanto lo scandalo. Anche il film di Bellocchio ha rischiato – e probabilmente rischia ancora – di restare negli annali per la lunga sequenza della fellatio in primo piano (girata senza alcun artificio) che la bravissima Maruschka Detmers pratica a un non troppo efficace Federico Pitzalis.
Ma per quanto non sia il migliore Bellocchio, con una sceneggiatura sfilacciata e arrotolata su se stessa, che cerca di mettere in fila i temi più cari al regista senza mai metterli a fuoco, che scema in atmosfere tipiche più di Bertolucci senza averne l’abbandono psicologico e la matrice intimista, per quanto abbondino scene gratuite e involontariamente grottesche (per quanto ottima interprete e perfetta nel ruolo, le scene di improvvisa follia della Detmers sfiorano più volte la farsa), il film è pregno di bei momenti e autentici lirismi di spessore. Il che accade ogni volta che Bellocchio rinuncia al teorema a tutti i costi, all’allegoria forzata e si lascia andare indugiando sugli splendidi sguardi malinconici e densi d’amore della protagonista, etichettata come folle dalla gioventù mentre in realtà sta soltanto cercando di far vibrare in tutta la sua forza quella gioventù che, una vita che l’ha vista maturare troppo in fretta, fino a quel momento le ha negato.
Una forza che è tutta, per l’appunto, negli occhi trasognati della notte, che traboccano al tempo stesso di innocenza e sensualità. Ed è qui, in questi sguardi muti e indimenticabili, che Bellocchio coglie l’essenza di Radiguet, il canto di un amore torrenziale e pericoloso, eppure puro, immacolato. Devastante e necessario.
Proprio come l’esistenza nella sua più fulgida rappresentazione. La giovinezza.
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