Richard Chance (William Petersen) è un poliziotto dalla testa calda, ossessionato dall’idea di incastrare il falsario Rick Masters (Willem Dafoe). Il giorno in cui il suo compagno di squadra viene ucciso mentre stava conducendo un’operazione da solista, Chance decide di allestire una messinscena illegale derubando un trasportatore di contanti… che si scopre essere un agente dell’FBI sotto copertura e che viene ucciso accidentalmente. Ostinato, Chance continua a tendere la sua trappola attorno a Masters, nonostante il diluvio di violenza che esplode intorno a lui…

Se escludiamo il malsano Cruising (1980), William Friedkin aveva perso il suo splendore dopo l’amaro fallimento di Il salario della paura (1977) e aveva invece cercato di riaccreditarsi agli occhi degli studios con il più leggero Pollice da scasso (1978) e L’affare del secolo (1983). Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A., 1985) segna quindi il suo ritorno al plot poliziesco e all’oscurità che lo caratterizza. Il film è un contraltare particolarmente contorto del suo classico Il braccio violento della legge (1971), di cui condivide molti punti in comune pur sovvertendoli abilmente. Nei suoi film migliori, i personaggi di Friedkin sono esseri che perseguono un obiettivo in modo quasi morboso, anche se ciò significa sprofondare nell’autodistruzione. Come i camionisti rischiosi de Il salario della paura, il prete de L’esorcista (1973), Al Pacino perso nella sua sessualità in Cruising e ovviamente Popeye Doyle/Gene Hackman, il tenace poliziotto di French Connection. È a quest’ultimo che si pensa nella Polizia di Los Angeles con il suo eroe Richard Chance (William Petersen) sulle tracce del falsario Rick Masters (Willem Dafoe), colpevole dell’assassinio del suo compagno di squadra. Se nei film sopra menzionati i personaggi spesso fallivano nella loro ricerca, conservavano comunque una certa grandezza nel fallimento. Qui è esattamente il contrario, dove Friedkin sminuisce costantemente il suo eroe.

Dalla scena iniziale Chance appare troppo vistoso e agitato per riuscire nella sua impresa. Friedkin ne fa il peggior cliché del poliziotto esibizionista con i jeans attillati, gli stivali, le giacche di pelle e i Ray-Ban (Cobra di Sylvester Stallone non è lontano). Questa ostentazione si manifesterà anche nell’azione, come quando viene ritrovato il cadavere del compagno di squadra nel magazzino da Masters o ancora dagli atteggiamenti cauti di Chance nel modo in cui si muove durante la perquisizione dei locali. Ovviamente quando si imbarca in una vendetta, il risultato non può che essere devastante. Ne Il braccio violento della legge, la personalità di Popeye Doyle mescola il genio della sua professione con zone grigie e una certa follia che dovrebbero portare verso una conclusione paralizzante. Niente di tutto ciò accade per Chance che qui moltiplica gli errori, facendosi manipolare, sminuito dai suoi superiori, perdendo un testimone e vivendo un destino inaspettato durante un incredibile colpo di scena finale. To Live and Die in L.A. appare quindi, come il suo eroe, come un vistoso riflesso di French Connection.

Per fare questo, Friedkin prende in prestito i codici dell’estetica appariscente degli anni Ottanta (in particolare la partitura musicale sincopata di Wang Chung) con la soleggiata Los Angeles e le notti piene di neon. L’artificiosità dell’ambiente si riflette quindi sui personaggi che non sono quello che sembrano. L’eroe virile e “macho” è un perdente, il suo compagno di squadra (John Pankow) un codardo, e il cattivo androgino ed effeminato interpretato da Willem Dafoe, al contrario, si rivela terribilmente minaccioso. Dafoe trasmette una malinconia e una dolcezza che inganna lo spettatore nei diversi contrasti in cui si manifesta spietato e brutale nei confronti dei suoi nemici. Questa vulnerabilità non è tuttavia finta, poiché Masters alla fine è, in questa logica irriducibile, un tipico personaggio di Friedkin. Alla ricerca di una perfezione che non riesce a raggiungere, Masters è un pittore che brucia i suoi quadri non appena sono finiti. Allo stesso modo nella conclusione capiremo che aveva capito il gioco di Chance ma, visto il suo piano fallire, piuttosto che reagire preferisce autodistruggersi lasciando che il processo finisca a suo danno.

Un personaggio davvero affascinante che enfatizza e dilata la differenza tra Friedkin e il suo grande rivale dell’epoca, Michael Mann – impossibile non pensare alla serie Miami Vice (1981). Non a caso Mann sporgerà denuncia per plagio e perderà ma compirà la sua vendetta strappando i diritti di Manhunter (1986) a Friedkin (e pure il protagonista). Se in Mann il rigore e il percorso che i personaggi si impongono mirano a disumanizzarli (l’inversione del processo è sempre il motore drammatico del film), Friedkin mira al contrario: i suoi eroi perdono se stessi proprio cedendo i loro demoni. L’umanizzazione è tragica ma bella in Mann, mentre è sinonimo di disordini che portano al caos per Friedkin. Raggiunto il quale scandisce le pulsazioni della città allo stesso ritmo dell’agitazione del Caso, perdendo l’equilibrio e prendendo tutte le decisioni sbagliate. Il culmine di questa logica è l’incredibile inseguimento automobilistico per le strade di Los Angeles, girato con virtuosismo e tensione mozzafiato che attraverso inserti subliminali (sempre più presenti nell’ultima parte) immerge completamente nell’equilibrio mentale della situazione precaria del caso. Una corsa a capofitto che arriverà al punto di non ritorno, come spesso accade con Friedkin. Il regno delle apparenze può dunque ripartire, con l’epilogo in cui John Pankow subentra a Petersen, celando un’altrettanto grande debolezza di carattere.

TO LIVE AND DIE IN L.A.

Autore

Una risposta a “Paranoia a Los Angeles”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Trending