È un film di fantasmi Un altro Ferragosto. Un film di presenze/assenze, di ricordi evanescenti e di voci lontane ma indissolubilmente presenti.
Lo si capisce subito, non appena partono i titoli di testa. Una carrellata a pelo d’acqua, che corre veloce verso la costa di Ventotene. Sovrapposta alle immagini, una colonna sonora da discoteca riminese, si alterna alle voci ormai perdute dei protagonisti di Ferie d’agosto.
E noi torniamo lì, a quelle voci, e ricordiamo chi ha proferito quella singola frase, rivediamo quei volti, riassaporiamo quelle sensazioni. Sembra passata una vita, ed infatti è così. Esattamente 28 anni. Un lasso di tempo che lasciato strascichi e cicatrici sui volti e sui corpi dei Molino e dei Mazzalupi, all’epoca rigidamente divisi da una lotta di classe che rispecchiava la destra e la sinistra di fine anni ’90, l’intellettuale borghese borioso e altezzoso che votava l’Ulivo e il cafone arricchito e fascista che vedeva solo Rete 4 e leggeva solo le istruzioni dei “telefonini”.
28 anni dicevamo. Sono cambiati i protagonisti sullo schermo, siamo cambiati noi, è cambiata l’Italia. Una nuova mutazione è avvenuta. Sia antropologica che culturale. L’era dei social impazza e si fanno soldi facili con le dirette e gli emoticon. Si può provare a ricordare il passato storico, soprattutto quello che riguarda gli esuli che hanno provato a scampare alle camicie nere e all’olio di ricino, ma si tratta di un ricordo che non serve a nulla, che si vagheggia mentre la morte incombe, di cui si diviene parte quando si passa al di là.
La morte è onnipresente nel nuovo film di Virzì. È una presenza costante che aleggia in ogni frame, che fa capolino da ogni inquadratura. Non è un caso che Un altro Ferragosto ricordi, per la costante persistenza della signora con la falce, La rivincita di Natale di Pupi Avati, altra pellicola che portava alla ribalta presenze spettrali, intese non come entità ectoplasmatiche, ma come persistenti ombre del passato.
E di ombre del passato questa nuova incursione fra terra, cielo e mare condotta dal regista livornese ne è piena: volti, sguardi, pensieri, fotografie, spezzoni presi dal primo capitolo, musiche, ambienti. Tutto rimanda a quanto avvenuto ieri, tutto si sofferma nel ricordo, forse perché il presente fa talmente schifo, è così deprimente che quanto avvenuto ieri non ci sembra più un’inospitale terra straniera, ma qualcosa da vagheggiare e riporre nei cassetti di un tempo in cui, forse, si poteva anche essere felici.
Come afferma a chiare note Emanuela Fanelli nel tenero e lessicalmente sdrucito monologo a fine pellicola, “facciamo schifo e ci meriteremmo di morire male, di una morte brutta”. Se Ferie d’agosto, malgrado la visione orripilante e caustica degli anni che cavalcarono Tangentopoli e l’ascesa irrefrenabile del Cavaliere, nella sua chiusura malinconica poteva lasciar trapelare uno spiraglio di speranza, Un altro Ferragosto ha una chiusura monca, senza repliche, con il suicidio di Tiziana Cruciani che sprofonda nelle azzurre acque d’agosto, in cerca di quell’oblio in cui finalmente si potrà ricordare in pace e riabbracciare le voci di dentro.
E anche i nuovi personaggi del film sono più brutti, più sporchi e più cattivi di quelli del 1996. Ancora più meschini, quasi caricaturali, nella loro completa mancanza di empatia verso il prossimo. Dalla crudele Fanelli al parvenu De Sica (e qui, credo, l’interprete ideale sarebbe stato Massimo Ghini, figura in grado di dare maggiori sfumature a questa maschera grottesca e viscida), passando per il volgarissimo Marchioni, per il gelido Carpenzano e arrivando alla stolidità bambinesca di Anna Ferraioli Ravel.
Un altro Ferragosto è più bello di Ferie d’agosto? Domanda a cui forse sapranno rispondere i posteri. Perché il film di Virzì è come un vino che acquisterà spessore maggiore nel corso del tempo, è uno spaccato sull’oggi che, come nella miglior tradizione della commedia all’italiana, solo col passare del tempo, saprà dirci quanto la sua visione profetica sia capace di cogliere nel segno e di cogliere lo spirito dei tempi.
Resta il fatto che la pellicola, una delle più belle di questo inizio anno, insieme all’Enea di Castellitto, riesce a far ridere e far commuovere, sa come far vibrare le corde della malinconia e del rimpianto, tratteggia, come sempre accade con Virzì al timone, caratteri e psicologie con sapienti pennellate, si avvale di uno stuolo di interpreti perfettamente in parte e di una sceneggiatura che alterna sapientemente toni ora buffi ora agrodolci, nuance dai colori autunnali malgrado il sole inondi ogni cosa.
Perché, in fondo, travolti da questo insolito destino di questo azzurro mare di agosto, siamo noi spettatori nel buio della sala. Noi, ritratti con perfida crudeltà e amaro spleen, e portati per mano a ballare sotto le stelle cadenti di un’Italia che sta letteralmente cadendo a pezzi.
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