Louis De Coco (Paul Sorvino), soprannominato Chubby per la sua corporatura fisica, e Tommy De Coco (Tony Lo Bianco) sono fratelli di mezza età che vivono secondo il codice non scritto della classe operaia italo-americana nel Bronx, che concepisce la visione maschile attraverso il machismo e la moglie in casa: sposarsi con una brava ragazza e divertirsi con le altre donne.
Entrambi lavorano nel settore edile, sono fortemente legati, e si dedicano reciprocamente alle loro famiglie nel fare ciò che ritengono meglio. Ma oltre le apparenze, le loro famiglie ribollono di problemi. Il figlio più piccolo di Tommy, Albert (Michael Hershewe), è anoressico causata dall’ansia all’interno del collettivo familiare e soprattutto per colpa della madre esaurita Maria (Lelia Goldoni) che non sa come affrontare la situazione. Il figlio maggiore Tommy Jr., soprannominato Stony (Richard Gere), legatissimo al fratellino, si è recentemente diplomato al liceo e non vuole seguire le orme del padre per dedicarsi all’infanzia (un’attività non da “macho”). E così, dopo il crollo di Albert, “Stony” accetta un lavoro con i bambini in ospedale come assistente ricreativo nel reparto pediatrico, entrando in forte contrasto col padre, che non comprende come possa rifiutare il duro stile di vita operaio. Ma è proprio Tommy, con il suo atteggiamento autoritario, ad aver generato effetti negativi sulla sottomessa Marie (Lelia Goldoni) e il piccolo Albert, a tal punto terrorizzato da finire ricoverato in ospedale. L’opportunità per Stony nasce proprio da questo ricovero: il buon rapporto tra i due fratelli non sfugge all’attenzione del dottor Harris (Floyd Levine) in ospedale che appunto offre a Stony l’opportunità di lavoro. Allo stesso tempo promette al padre che proverà per due settimane anche l’attività in edilizia.
Ma l’ingresso di “Stony” nella “confraternita” degli elettricisti si rivelerà traumatico, mentre l’idea di sua madre di una piccola vendetta per un’infedeltà di Tommy sarà destinata ad avere gravi conseguenze. E tutto questo mentre “Stony” inizia una bella relazione con la cameriera del bar abituale, Annette (Marilu Henner). In breve la situazione familiare precipita, anche se zio Louis rivelerà la sua grande sensibilità e amore per il nipote…
A 53 anni quando dirige Una strada chiamata domani (Bloodbrothers, 1978), suo sedicesimo lungometraggio, Robert Mulligan è già un veterano, ma in qualche modo si può identificare con la “New Hollywood” per il suo forte taglio progressista, firmando opere memorabili come Il buio oltre la siepe (To Kill a Mockingbird, 1962), Lo strano mondo di Daisy Clover (Inside Daisy Clover, 1965), Su per la discesa (Up the Down Staircase, 1967), La notte dell’agguato (The Stalking Moon, 1968), Quell’estate del ’42 (Summer of ’42, 1971), Il mediatore (The Nickel Ride, 1974), L’uomo della luna (The Man in the Moon, 1991). Mulligan si trova al suo meglio certamente quando si occupa dell’infanzia o dell’adolescenza, periodi della vita che pochi come lui sanno ritrarre con tanta accuratezza.
Qui, con nel cast il giovanissimo ed emergente Richard Gere (un po’ modellato sul Brando e sul James Dean del passato), adatta il romanzo omonimo di Richard Price pubblicato nel 1976, che racconta dettagliatamente una famiglia disfunzionale italo-americana dominata da un padre il cui comportamento immaturo e profondamente macho porterà alla sua disgregazione. Il figlio maggiore simboleggia l’impossibile equazione generata da questo male endogeno, che porta il giovane a rimanere nell’ovile familiare per non deludere il padre che rispetta, ma anche per proteggere il fratellino, completamente traumatizzata da una madre stremata dal peso delle vicissitudini quotidiane sommate all’autoritarismo del marito.
L’argomento, decisamente oscuro, viene inizialmente trattato con una certa leggerezza da Mulligan che, in un lungo preambolo, descrive, con un umorismo al limite della caricatura (e della volgarità), le scorribande notturne dei due “capifamiglia” De Coco. Un’ambientazione forse troppo colorita, voluta per contestualizzare, ma che manca un po’ il suo obiettivo, forse Mulligan si avventura in un ambito che evidentemente non è il suo. Ma il film riacquista verve, forza di convinzione e credibilità quando il regista, più a suo agio, si interessa da vicino del rapporto che “Stony” intrattiene con il fratello minore, rivelando una reale predisposizione conseguente al lavoro in un reparto per bambini malati in un ospedale del Bronx. Se il peso delle tradizioni riporterà “Stony” al suo clan, un drammatico incidente completerà la sua emancipazione.
Il contesto, costruito come una cronaca iper-realistica, progredisce dagli attacchi isterici agli attacchi di ubriachezza “virile” e descrive senza compiacenza questo mondo di “macho” rissosi e fondamentalmente intolleranti e primordiali.
Mulligan raccoglie intorno a Richard Gere un cast folgorante: Tony Lo Bianco nel ruolo della vita, superbo nei panni di un padre caparbio e gretto, modellato dall’ambiente al punto da diventare odioso; Paul Sorvino, perfetto come zio fracassone ma sensibile. Ma è Lelia Goldoni a rubare la scena a tutti, in un personaggio maniaco-depressivo da “casalinga disperata” costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. La sequenza in cui paralizza il figlio più giovane strappandogli letteralmente i capelli è agghiacciante.
Mulligan, talvolta, sembra emulare l’estetica dei film di John Travolta degli anni ’70, ma come se volesse farne il verso. Ma riesce a imporre la sua sensibilità, che attraversa lo schermo in più di un’occasione.
Strepitosa la colonna sonora di Elmer Bernstein.
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