Abbecedario siciliano di Roberto Alajmo, scrittore e giornalista nato a Palermo, pubblicato da Sellerio, è un’agile, gustosa antologia di parole ed espressioni del dialetto sìculo. Lo so, dire siciliano, riferendosi all’idioma di una regione tutt’altro che piccola come la Sicilia, potrebbe suonare un po’ generico: la Sicilia è una delle regioni con più capoluoghi di provincia (sono 9 come in Emilia Romagna. La prima è la Lombardia con 12 province, la Toscana ne ha 10). A proposito di varianti locali, troviamo in questo Abbecedario la voce Tignitè: vuol dire in grande quantità. L’equivalente di a bizzeffe. “Ne esistono diverse varianti provinciali, come a tinchitè. Andrea Camilleri, fedele alla versione agrigentina, diceva a tinghitè. Si usa molto nella sfera gastronomica per definire il libitum della smodatezza, la crapula più spudorata: -Puoi mangiarne a tignitè”. 

Ogni dialetto ha, dunque, le sue varianti provinciali, per limitarci a un perimetro geografico-urbanistico più ampio del comune o del quartiere. Non facciamo, quindi, i pillicùsi o gli stuffusi. Abbecedario. Già di per sé, la parola evoca un’aura antica, di scuola d’altri tempi, conserva una patina quasi aulica, favolistica (l’abbecedario di Pinocchio), ma nel contempo familiare. L’Abbecedario di Roberto Alajmo è una sorta di florilegio tascabile che raccoglie alcune voci (sostantivi e verbi) del dialetto siciliano, in ordine alfabetico (ecco, forse, perché il termine Abbecedario), dalla A di Acchianare (“portare a livello, sollevare, salire. Ma in senso figurato: approdare a una dimensione nuova e maggiore. Acchianata è la prima visita del fidanzato che va a conoscere i parenti della futura sposa”) alla Z di Ziccùso (individuo portato a un’eccessiva parsimonia) e Zito (ragazzo o ragazza nel senso anche di fidanzato/a). E in mezzo, lungo tutto l’alfabeto, s’incontrano parole che suonano affascinanti e nuove soprattutto per chi non è siciliano. 

Breve parentesi autobiografica: il mio approccio da lettore con il lessico siciliano avvenne tramite i racconti di Andrea Camilleri, dove  imparai vocaboli come ùmmira (ombra), cataminarsi (muoversi continuamente, agitarsi, spostare), taliare (fissare attentamente, parole che non troverete nell’Abbecedario di Alajmo) e cabbasìsi, voce che invece è ben spiegata in questo Abbecedario, e che fu sdoganata nella lingua italiana parlata e informale grazie soprattutto alla serie televisiva tratta dai romanzi di Camilleri, ambientata nell’immaginaria cittadina di Vigata, protagonista il commissario Salvo Montalbano, interpretato da Luca Zingaretti. Per un vocabolario Camilleriano-Italiano rimando a Mario Genco. Ecco, invece, la definizione, con tanto di etimologia, in Abbecedario siciliano:

Cabbasìsi: “Termine che grazie a Camilleri è passato dal dialetto alla lingua senza nemmeno bisogno di traduzione con il risultato di smorzare in parte il retrogusto di volgarità. A quanto pare deriva dall’arabo habb-aziz che vuol dire bacca splendida, ed effettivamente la forma ovoidale dei piccoli tuberi della pianta denominata cyperus esculentus (cipero o zigolo dolce) potrebbe lasciare pensare a quella determinata cosa”.

Rompere o far girare i cabbasìsi suona, almeno alle mie orecchie, assai più elegante dell’equivalente italiano (scassare i marroni), ma anche meno aulico e snob di “frangere gli zebedei”. Non è esagerato supporre che, dopo la serie televisiva di Montalbano, il termine cabbasìsi abbia fatto il suo ingresso nell’italiano parlato (se non proprio ufficialmente nel vocabolario) così come il romagnolo Amarcord (mi ricordo), assurto a dignità quasi proverbiale con il film omonimo di Federico Fellini, e le espressioni paisà e sciuscià (lustrascarpe, dall’inglese shoeshine), titoli di due pellicole cult del neorealismo, rispettivamente di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. 

Bèlice o Belìce?
Ritornando indietro dalla C alla B, troviamo un altro termine, questa volta geografico, di cui urge una spiegazione: Belìce. Ecco cosa precisa Alajmo:

“Per secoli e secoli l’accento è caduto sulla iBelìce, dal fiume che attraversa la valle. Poi, nel 1968, ci fu il terremoto che ebbe epicentro precisamente lì. Nella concitazione dei primi momenti, coi servizi da confezionare di fretta, un inviato della Rai non trovò il tempo di informarsi e si lanciò a dire: Bèlice. Con l’accento sulla prima e. Creato un precedente, lui e anche tutti gli altri giornalisti continuarono a dire Bèlice, e da quel momento in poi il mondo seppe che c’era un posto che si chiamava Valle del Bèlice. Gli abitanti del Belìce in quel frangente avevano troppi problemi per mettersi a questionare sugli accenti, e quando finalmente si sarebbe potuto chiarire era ormai troppo tardi: anche agli abitanti del posto non restò che adeguarsi a quel che la televisione aveva stabilito. Così che oggi anche nel Belìce quasi tutti, per sfinimento, si sono rassegnati a dire Bèlice”.

“Sempre che cusciulìi!”
Interessante, e anche molto attuale, il verbo cusciuliàri: “-Sempre che cusciulìi! Si dice delle persone che stentano a rimanere a casa, sempre pronte a uscire e andarsene in giro, specialmente per divertirsi o stare con gli amici. Cusciuliatore è il viaggiatore inquieto e curioso del mondo, che non si accontenta della realtà che lo circonda. Il termine sembrerebbe prendere origine dall’uso che si fa delle cosce nel camminare”. 

Particolarmente curioso il capitolo della lettera L che inizia con lagnusìa (indica una pigrizia impastata con tendenza al mugugno), e lampiare (parola che descrive i temporali, ma anche la violenza di un colpo improvviso). Andando avanti troviamo l’aggettivo lippuso (da lìppo) che indica, in senso letterale e figurato, un terreno scivoloso, sdrucciolevole, e quindi un argomento sul quale è meglio non avventurarsi (in genovese diciamo lèppego e leppegoso). Alla O, troviamo ovo: “l’espressione morto nt’all’ovo si riserva alle persone che fin dalla nascita hanno dimostrato scarsa vitalità. (…) Un altro modo di definire i soggetti meno vivaci d’intelletto è catapràsima, che definisce chi risulta privo di senso dell’umorismo, insignificante, inadatto all’azione, persino tardo di comprendonio”.
E chi non ha mai incontrato nella propria vita un pillicuso (o appricùso), parola che denota persona “estremamente attenta alla forma, al punto da rendersi molesta, se non addirittura portatrice di immobilismo. Mih, che sei pillicuso!”.

L’autore Roberto Alajmo

Il destino ‘scannaliato’ di Mimì il metallurgico
Chi è rimasto bruciato da una determinata esperienza si definisce scannaliato. Scottato, potremmo dire in italiano. Aggiunge Roberto Alajmo: “Scannaliato è pure il protagonista di Mimì metallurgico, film di Lina Wertmüller con Giancarlo Giannini. Carmelo Mardocheo, il personaggio centrale, è un giovane ribelle che scappa dall’Isola perché si rifiuta di votare secondo le indicazioni del capomafia locale, interpretato da Turi Ferro, contraddistinto da tre nei sul viso.  Allora scappa il più lontano possibile ma sempre, per tutta la vita, si imbatterà in rappresentanti del potere interpretati da Turi Ferro, ogni volta un po’ diverso ma sempre con gli stessi tre nei sulla faccia. Alla fine, dopo essersi ripetutamente e inutilmente scannaliato, Carmelo Mardocheo capisce che per quanto possa scappare, la sua isola riuscirà sempre a raggiungerlo”. 

Chiudiamo con una delle voci più interessanti di questo Abbecedario: Combattere. In siciliano, scrive Alajmo, “parallelamente alla tendenza a minimizzare le cose serie (festìnofuitìnaammazzatìna) esiste un modo di ingigantire le minuzie. Si drammatizzano aspetti della vita quotidiana che a prima vista sembrerebbero di banale contrarietà:

-Come stai?
-Eh, combatto col raffreddore.

Si combatte con le malattie, coi figli, coi genitori, con gli insegnanti, col lavoro, con il meccanico, con chiunque e con la vita in generale”.

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