Oggi, al cinema e (soprattutto) nelle serie TV, la violenza, intesa come racconto esplicito del disagio e della brutalità esistenziale e criminale, è diventata di fatto un canone estetico di riferimento, un termine di paragone, un’etichetta indispensabile al lancio del prodotto.
Basta guardare – anche se l’elenco sarebbe decisamente più lungo, ampio e articolato – i prodotti nostrani di maggior successo, da Romanzo criminale a Gomorra, fino a Suburra. Se la prima – opera dal valore difficilmente discutibile – ha fatto suo malgrado da paradigma, le altre, per via di una serialità insistita per quanto inevitabile, hanno accompagnato lo sviluppo narrativo a un crescendo di rappresentazione della violenza. Talmente parossistico che, nemmeno troppo paradossalmente, ha finito per normalizzare l’orrore, renderlo quasi quotidiano, addomesticarlo fino al punto da non suscitare più alcuna emozione, dall’indignazione alla repulsione.
L’altra strada battuta, assai più sciagurata, è quella di far passare la redenzione dalla violenza criminale attraverso un certo patetismo da soap opera. La ricetta, per intenderci, della serie Il mare fuori. La conseguenza è più o meno la stessa, con l’aggravante che l’inferno diventa di fatto strada maestra, tappa indispensabile per un’esistenza piena e compiuta. Ma al di là delle riflessioni sulla questione morale, che rimandiamo ad altri momenti e ad altre sedi, tutto questo finisce per rendere del tutto fasulla, patinata e inverosimile, proprio quella rappresentazione del disagio, del margine, e quindi della violenza, che viene invece presentata come iperrealistica.
Peccato. Perché da noi, pianeta Italia, la tradizione della narrazione realistica – e iperrealistica – sarebbe quanto mai illustre. Senza andare però a ripescare le lezioni di prassi sul neorealismo o sul Pasolini del sottoproletariato, bastano, come esempio, tempi assai più recenti. Fine anni ’80 e inizio anni ’90, per l’esattezza. Quando il cinema italiano riscoprì quella vocazione congenita alle storie marginali e disperatamente autentiche attraverso una serie di pellicole – non tutte riuscite a dire il vero, ma di certo interessanti – che fecero parlare di “neo neorealismo”.
Etichette a parte, capostipite di quella particolare tendenza fu Mery per sempre, diretto da Marco Risi (il figlio di Dino, che fino a quel momento si era dedicato a commedie costruite apposta per esaltare la comicità di Jerry Calà e che proprio con Mery per sempre diede una svolta radicale al suo stile) e tratto da un romanzo inchiesta (e quasi omonimo, visto che nel romanzo “Meri” è senza la “y”) di Aurelio Grimaldi, pubblicato nel 1987 da una piccola casa editrice ma che, visto il tema (la vita dura e sconvolgente di un gruppo di ragazzi di strada detenuti nel carcere minorile di Palermo), aveva riscosso un discreto successo.
Il film di Risi, se proprio vogliamo parlare di storia del cinema, non ha certo il respiro universale dei capolavori di Rossellini e di De Sica, ma è comunque opera di straordinario coraggio, capace di accendere i riflettori su uno scorcio di realtà scomoda e indigesta, che si tende a tenere sotto il tappeto, di cui si evita di non parlarne, insostenibile lato oscuro del nostro benessere che graffia e scuote nella più fastidiosa e insostenibile delle maniere. Non è, quello di Mery per sempre, un mondo in malora e derelitto. È il teorema – ma, e qui la sua grandezza, senza pretese di assunto sociologico – della sua alba, l’origine della criminalità. Vedere in azione ladri, mafiosi e assassini, mette in atto un processo salvifico facendoci sentire migliori e nel giusto. Qui però vediamo ragazzini, bambini addirittura. Romanzo e film ci costringono così a fare i conti con la nostra coscienza, con le nostre responsabilità: le pareti tristi e incrostate del carcere minorile Rosaspina (trasfigurazione letteraria del Malaspina) ci mette davanti agli occhi, come uno schiaffo, il più atroce dei determinismi. Vale a dire che noi siamo il luogo in cui nasciamo, il contesto in cui cresciamo, le persone che frequentiamo.
Lo dice esplicitamente uno dei protagonisti, Pietro, splendidamente interpretato da un giovanissimo Claudio Amendola (assieme a Michele Placido unico attore professionista), in uno dei momenti più didascalici eppure più intensi del film: “a sei anni, quando gli altri picciriddi vanno a scuola, pettinati bene, le scarpe lucide… io a quei tempi andavo al carcere femminile di Palermo a trovare mia madre. O prete mi voleva mandare ad un istituto, così ti insegno a leggere e scrivere diceva… sì… assieme a gli altri figli di puttana ci volevano richiudere tutti in tana… e io già allora dicevo no… e perché? Perché professò eh? Perché era dentro, come sono dentro ora… io sono cattivo professore, sono un malacarne.. io ce nascevo con questa rabbia dentro, non ce niente da fare… questo è il mio destino”.
Un film dunque sulla tragedia di chi, in un paese civilissimo e democratico, nasce comunque dalla parte sbagliata. Rappresentata senza alcuna indulgenza, senza bei visi, senza redenzione, senza alcun cedimento al pathos e all’intreccio romantico stile Mare fuori, che mitiga il dramma fino ad annullarlo trasformandoci in spettatori appassionati, privi di coscienza. Mery per sempre è al contrario l’esplicitazione di una colpa terribile perché riguarda tutti, al punto che nessuno è realmente punibile. La rappresentazione al contempo del fallimento della democrazia e delle storture del benessere. Con la conclusione che diventa impossibile, dannatamente impossibile, chiudere il concetto di delinquenza nel ghetto dell’altro da noi. È, al contrario, ciò che potremmo essere. Tutti quanti, nessuno escluso. Al punto che diventa logico comprendere come per i ragazzi del carcere, nati e cresciuti in simili ambienti, nella più totale assenza dello Stato, delle istituzioni, dello stesso concetto del vivere civile, la mafia diventa “bella” e “giusta”, come dice Natale, il figlio di un boss incarcerato per omicidio e interpretato dall’allora dilettante Francesco Benigno.
Attori non attori, si diceva. Ecco, l’altra grandezza di questo film, nonché la sua insostenibilità, è quella di recuperare la lezione neorealista e pasoliniana e far interpretare tutti i minorenni carcerati (escluso, come si diceva, il personaggio di Pietro affidato ad Amendola) a ragazzi palermitani selezionati da Risi durante un lunghissimo casting. Tra di loro, vi sono ragazzi realmente passati dal minorile, realmente analfabeti, realmente cresciuti in contesti di profondo disagio. Al punto che la loro autenticità sconvolge, una potenza espressiva che ferisce quasi a sangue.
Questo ha comportato anche questioni extra cinematografiche, facendo sì che sul destino dei giovanissimi ragazzi coinvolti nel film si stendesse un alone di maledettismo. Roberto Mariano, Antonio nel film, perse la vita in un incidente aereo, Marco Crisafulli, Davide, morì annegato, Alfredo Li Bassi, Carmelo, ebbe più di un problema con la legge. Come lo stesso Francesco Benigno, unico di tutto il cast a riuscire a dare un seguito, seppur modestamente, alla carriera di attore.
In realtà non esiste alcuna maledizione. Sono le vite da cui provengono questi ragazzi, il marchio della dannazione. Emblematico in questo senso l’episodio più tragico legato ai destini dei giovani interpreti: Stefano Consiglio, che avrebbe dovuto avere una piccola parte poi tagliata in fase di montaggio, fu assurdamente ucciso da un poliziotto durante il tentato furto di un’autoradio, proprio mentre a Palermo si stava proiettando l’anteprima del film. Una storia nella storia, un episodio inaudito – una pallottola nella testa di un minorenne per un’autoradio – rievocato nella sequenza più drammatica del sequel Ragazzi fuori, ulteriore testimonianza di una realtà impossibile.
Il titolo fa riferimento al personaggio senza dubbio più iconico di quest’opera corale, Mario detto Meri (nel libro) o Mery (nel film), interpretata da una vera trans, Alessandra Di Sanzo (all’epoca ancora Alessandro). All’epoca, il coraggio di Risi fu anche quello di parlare apertamente di una tematica tutt’altro che scontata, al contrario un tabù gigantesco, ma anch’essa dannatamente reale.
La realtà appunto, il vero punto di forza di questo film che, a quasi trentacinque anni di distanza, presenta intatto il suo valore. E se l’importanza di un’opera d’arte si misura, giustamente, nella sua persistenza nel tempo, allora Mery per sempre entra a pieno titolo nel lotto dei film più importanti di fine secolo. Che ancora oggi riesce a sfuggire e a farci sfuggire, con intelligenza e profondità, alla logica manichea che vorrebbe un mondo diviso tra buoni e cattivi senza alcuna sfumatura.
In tempi tanto penosi come i nostri, puro balsamo dell’anima.
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