Il giorno dopo il suo ultimo grande colpo, il furto di 50 milioni di franchi in lingotti d’oro all’aeroporto di Orly, Max (Jean Gabin), carismatico padrino della malavita parigina, aspira a ritirarsi con “Riton” (René Dary), suo complice e amico di lunga data. Ma in seguito alle sfortunate indiscrezioni fatte da “Riton” alla sua amante Josy (Jeanne Moreau), il giovane capobanda Angelo (Lino Ventura) punta gli occhi sul bottino. E utilizza ogni mezzo per mettere le mani sul famoso grisbì e scatenare così una guerra tra bande…
Se dovessimo individuare il film di riferimento del thriller francese, matrice delle opere a venire del genere, quello non può che essere Grisbì (Touchez pas au grisbi, 1954). Il film di Jacques Becker dà il tono a tutte le produzioni che lo seguiranno, non solo per la descrizione realistica dell’“ambiente” e dei suoi personaggi, ma anche per la sua impostazione, tra una cronaca sociale dai forti risvolti psicologici e sequenze d’azione brutali che delineano la mitologia aberrante del gangster francese. Detto questo, è ovvio che lo stile di Jacques Becker è immediatamente riconoscibile e che i futuri registi che ne trarranno ispirazione trasformeranno la materia verso direzioni più personali. Ma è indubbio che senza Touchez pas au grisbi non ci sarebbero Rififì (Du rififi chez les hommes, 1955), di Jules Dassin; Bob il giocatore (Bob le flambeur, 1956), di Jean-Pierre Melville. o Asfalto che scotta (Classe tous risques, 1960), di Claude Sautet. Negli anni ‘50 e ‘60, i film realizzati da Melville, José Giovanni, Gille Grangier, Henry Verneuil – per citarne solo alcuni -, se certamente avessero guardato a Hollywood e ai suoi film noir, avrebbero avuto soprattutto un grande debito con l’opera luccicante di Jacques Becker e Albert Simonin.
Touchez pas au grisbì, prima di essere una creazione di Becker, è stato un romanzo dello scrittore Albert Simonin. Il libro, alla sua uscita, riscosse un clamoroso successo di critica e di pubblico. Il romanziere, forte dell’esperienza acquisita sulla strada (aveva svolto diversi lavori tra cui quello di tassista, dopo aver praticato per un certo periodo il giornalismo), ricrea un mondo popolato da gangster spietati ma pittoreschi, dal gergo gustoso e fiorito. Simonin introduce il gergo dei delinquenti nella letteratura poliziesca e poi nel cinema, partecipando all’adattamento dei suoi romanzi – Il re dei falsari (Le cave se rebiffe, 1961), di Gilles Grangier; e In famiglia si spara (Les Tontons flingueurs, 1963), di Georges Lautner) – e lavorando, anche come sceneggiatore/dialoghista, su film come Colpo grosso al casinò (Mélodie en sous-sol, 1963), di Henri Verneuil e Quattro spie sotto letto (Les Barbouzes, 1964), di Georges Lautner.
La descrizione meticolosa della malavita parigina, dei rapporti di classe, la storia di un’amicizia profonda, le devastazioni di un tradimento o gli sconvolgimenti di un vecchio mondo barcollante, tutti i temi contenuti nel romanzo sembrano pensati per Jacques Becker, del quale si riconoscono le drammatiche ossessioni da Dernier Atout (1942) a Casco d’oro (Casque d’or, 1952). Ancora una volta il regista esterna la sua inclinazione da entomologo per descrivere questo universo popolato da personaggi pittoreschi e fortemente improntati alla solidarietà di classe (basta vedere l’accoglienza beffarda riservata ai semplici clienti che entrano nel ristorante, che funge da luogo di incontro e di decompressione). Come spesso accade, il cineasta fa emergere la verità dei suoi personaggi e delle sue situazioni partendo dai piccoli dettagli che gradualmente compongono una tela viva e impressionistica. Becker è un maestro della i soggetti non gli interessano in quanto soggetti, è interessato solo ai personaggi delle sue storie, lo ossessionano costantemente. I piccoli gesti quotidiani hanno la precedenza sulla trama, ma senza sovrastarla. I personaggi vengono descritti come persone normali, che occupano una funzione sociale specifica, perchè non è possibile concepire un personaggio senza eoccuparsi del modo in cui vive, delle sue relazioni sociali, qualunque sia inoltre la classe a cui appartiene. È in queste rappresntazioni che Becker dilata il tempo e rende realistici i suoi personaggi, conferendo loro progressivamente uno status mitologico (già presente nel libro di Albert Simonin, ma qui amplificato) che li rende immortali. Il regista articola umanesimo e leggenda, che è in gran parte la forza del suo film, storia di un’amicizia fatale.
Touche pas au grisbì racconta la ricerca impossibile di un uomo che non può sfuggire alla sua condizione di gangster e il cui punto debole, e quindi anche il suo punto d’onore, resta il profondo attaccamento al suo vecchio amico “Riton”. Il film è in realtà costruito sotto forma di loop: si parte dal ristorante “Bouche” e vi si ritorna. Come se quanto accaduto tra questi due momenti formasse solo una parentesi. Alla fine, “Max il bugiardo” (soprannominato da Simonin nei suoi libri per i suoi pettegolezzi con le donne) è costretto a mentire a chi lo circonda sulla sua situazione. Max diventa così doppiamente prigioniero, sia della sua condizione che del suo destino. Più si avanza nel film, più diventa oscuro. Da cronaca quasi sociale e urbana dagli accenti bonari, Touchez pas au grisbi diventa presto un vero e proprio Film Noir. L’immagine, partendo da toni grigi e dettagliati, si scurisce gradualmente per terminare in un tono molto cupo, anche se tutta la trama si svolge prevalentemente di notte. Questo vale anche per la topografia dei luoghi: si parte da scene amichevoli di ristoranti e nightclub, si scende in cantina per poi finire su una strada deserta per lo scontro finale. È un mondo brutale, bestialmente violento, un mondo di uomini in cui le donne non hanno un posto reale. L’amicizia come valore supremo impedisce la realizzazione dell’amore. A questo proposito, le donne di Touchez pas au grisbì sono ridotte a due stereotipi: la giovane e carina “baldracca”, attratta dal lusso e un po’ sbadata, e la matrona che si prende cura del suo uomo. Solo una donna si libera da queste rappresentazioni e simboleggia proprio l’ambiente piccolo-borghese a cui Max tenta invano di inserirsi.
La solidarietà del clan e i profondi sentimenti di amicizia per “Riton” definiscono la moralità di Max. Becker li filma amorevolmente come una vecchia coppia. Nella discoteca gestita dal loro amico Pierrot (Paul Frankeur) e soprattutto nel suo appartamento, Max si occupa di dar da mangiare all’amico e di provvedere ai suoi bisogni. Il calore umano che emerge da queste scene intime resta per sempre impresso nella mente dello spettatore. Max esita, per un attimo, nel venire in aiuto dell’amico “Riton” sequestrato da Angelo. Significativa, a questo proposito, la bella sequenza in cui Max si rivolge alla sua amante borghese: il gangster, dopo un momento d’intimità trascorso con la sua amante nel lussuoso e luminoso appartamento, pentendosi di aver pensato di poter lasciare che l’amico badasse a se stesso nelle mai dei suoi rapitori, torna a piazzarsi nell’ombra, illuminato solo dalla luce di un fiammifero. La regia, quindi, rimanda Max nell’oscurità, un universo buio al quale non può fare a meno di ritornare. (nel doppiaggio originale, è in questo preciso momento che si ode la voce fuori campo di Jean Gabin, una tecnica che delimita la trama attorno al viaggio personale del gangster).
Il famoso tema musicale composto da Jean Wiener accompagna Max come un’ombra non appena il grisbì e/o “Riton” tornano ad essere il tema principale. Il regista, secondo le sue abitudini, usa pochissima musica, e anche in questo caso aveva eliminato quasi tutta la partitura scritta dal musicista. Rimane questa melodia profondamente malinconica suonata con l’armonica. Il brano musicale preferito di Max agisce come una punteggiatura drammatica che delimita e imprigiona Max nel suo mondo in declino. Perché è anche di questo che Becker parla nel suo film: i giovani hanno la precedenza sugli anziani e non sanno che farsene di un vecchio codice d’onore che considerano superato. Ma i vecchi leoni come Gabin, il “distributore di schiaffi”, anche quando ricacciati alle corde, continuano a lottare e a garantire l’esistenza della loro stirpe. Il pessimismo di Becker trova il suo segno nella preservazione dell’amicizia, l’unico valore che rimane quando tutto il resto crolla. La commovente conclusione del film, la dolorosa menzogna di Max/Gabin, offre al personaggio uno status immutabile e al tempo stesso tragico e finisce per collocare quest’opera in un posto di prim’ordine nella storia del cinema francese. Sotto certi aspetti, l’influenza di Touchez pas au grisbì ha trasceso i confini nazionali: Il Padrino (The Godfather, 1972), affresco familiare, cruento e operistico, di Francis Ford Coppola ricorda, per molti aspetti, certe figure narrative del film di Jacques Becker e la stessa volontà di coniugare cronaca sociale e mitologia del film di gangster.
La nascita del moderno polar francese è accompagnata anche dalla rinascita di una figura leggendaria del cinema francese. In effetti, Jean Gabin, dalla fine della Seconda guerra mondiale e dal suo ritorno in Francia, non era mai riuscito a riconquistare il prestigio che occupava prima della guerra. L’attore più rappresentativo del cinema francese degli anni Trenta, colui che fu protagonista delle più grandi opere di Renoir, Duvivier, Grémillon e Carné, simbolo di un’intera industria e di un intero popolo, non era più in grado di unire le folle. Una serie di film piuttosto insignificanti – ad eccezione di La follia di Roberta Donge (La Vérité sur Bébé Donge, 1952), di Henri Decoin – e il deliberato ostracismo da parte dell’industria cinematografica, dovuto alla coscienza sporca dei responsabili di fronte al combattente della resistenza Gabin impegnato nell’esercito gollista, finì per isolare l’attore. Grazie all’enorme successo di Touchez pas au grisbì ean Gabin iniziò una nuova fiorente carriera. A poco a poco, riconvertendosi nel ruolo di patriarca autoritario, anziano ed esperto, Gabin diventerà il “Padrino” del cinema francese, a volte in peggio, ma spesso in meglio. Il “Padrino” nei film, ma anche nell’industria. Perché attorno a lui si formerà una confraternita di produttori, registi, sceneggiatori, dialoghisti e ovviamente attori che onoreranno un certo cinema popolare francese (espressione purtroppo peggiorativa per taluni). Personalità come quelle di Giovanni, Verneuil, Enrico, Lautner, Audiard, Blier, Ventura, Belmondo o Delon comporranno una straordinaria comunità creativa. In Touchez pas au grisbì compaiono alcuni frequentatori abituali di questo tipo di produzioni come Dora Doll o il gustoso Paul Frankeur. Significativa la presenza di Jeanne Moreau in uno dei suoi primissimi ruoli.
E, naturalmente, l’ex campione di wrestling Lino Ventura, al suo primo film (riprenderà in prima persona il ruolo di “Max il bugiardo” ne In famiglia si spara, sempre adattato da Simonin). Ventura inizia qui una carriera all’ombra di Gabin, prima di trovare la sua collocazione nel cinema francese che illuminerà con il suo carisma, il suo umorismo e la sua umanità.
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