Nella campagna inglese degli anni ’70 a volte accadono cose raccapriccianti, molto lontane dagli eventi sui quali indaga l’ispettore Barnaby. Due stivali minacciosi appaiono nella prima inquadratura, su ciascuno dei quali spicca una grande stella bianca. Sono parte di un individuo misterioso che esce da un cinema dopo una doppia proiezione cinematografica che è tutto un programma: The Convent Murders (Gli omicidi del convento) e Rapist Cult (Il culto dello stupro). Il soggetto si ferma per qualche istante davanti a una vetrina di un negozio dove si scorge una tv che proietta Il giardino delle torture (Torture garden, 1967), di Freddie Francis, e se ne va. Accade che questo individuo, uno psicopatico, incontra per strada un padre di famiglia che gli macchia gli stivali di fango con l’auto, e decide di sterminargli la famiglia (composta dalla moglie e dalla figlia). Per una serie di circostanze la nipote Sarah (Mia Farrow) si trova ospite della famiglia: è diventata cieca in seguito a una caduta da cavallo. Sarah non è in casa durante la mattanza, ma quando lo psicopatico si accorge che la giovane, senza saperlo, ha le prove che consentono di identificarlo, torna sui suoi passi per finire il lavoro…

Terrore cieco (See No Evil/Blind Terror, 1971) è un film sorprendente per il cast tecnico e per l’evidente prova stilistica in ambito thriller. Dietro la macchina c’è l’ottimo ed espertissimo veterano Richard Fleischer, troppo spesso emarginato a tuttofare privo di vera genialità. In realtà la sua è una filmografia sfolgorante e poliedrica, caratterizzata dalla sua grande modestia che lo ha sempre portato a mettersi al servizio delle sceneggiature: Ventimila leghe sotto i mari, Bandido, I vichinghi, Frenesia del delitto, Barabba, Viaggio allucinante, Il favoloso dottor Dolittle, Lo strangolatore di Boston, Tora! Tora! Tora!, L’assassino di Rillington Place n. 10, I nuovi centurioni, 2022: i sopravvissuti

In Terrore cieco traspare tutta la maestria, il know-how, la “scienza della struttura” e dei tempi del regista. Che solo una volta, all’inizio, manifesta un cinico umorismo nella breve scena dell’assassino davanti al Tv. L’ampia inquadratura di una strada notturna che riprende in primo piano gli stivali dell’assassino, sostenuta dalle prime note dell’eccellente e tonificante colonna sonora di Elmer Bernstein: un esercizio di stile, niente di più, niente di meno. Ma efficacissimo. Certo, la sceneggiatura dell’esperto Brian Clemens gioca su un unico spartito, e questo è il limite. Una trama sottile, lontana dai trucchi e dalle stravaganze del genere: un killer di cui si vedono solo le mani e soprattutto i piedi, un movente oscuro, e una partita serrata tra una donna cieca e uno psicopatico che si era già vista nell’indiscutibilmente superiore Gli occhi della notte (Wait Until Dark, 1967), di Terence Young, con Audrey Hepburn.

Clemens, sceneggiatore e produttore, è stato responsabile di centinaia di ore di fiction televisiva britannica (come The Avengers e The Professionals). Si deve a lui la fortuna cinematografica mondiale di Diana Rigg nel ruolo di Emma Peel. Di fatto, Clemens aveva un modello visivo unico, fondendo una Gran Bretagna vecchio stile, mitica ma riconoscibile con le mode e le idee progressiste degli anni Sessanta. Clemens non aspirava alla profondità politica e utilizzava semplicemente quelli che considerava gli atteggiamenti prevalenti dell’epoca per raccontare storie divertenti. Il suo dono nel destreggiarsi tra il lato pratico e quello creativo della sceneggiatura è stato affinato durante un periodo come story editor non ufficiale nel 1960-61 per i primi episodi dello serie di spionaggio di Patrick McGoohan Danger Man. Suo maestro riconosciuto era Alfred Hitchcock, ma di tutte le sue non numerose incursioni nel cinema solo Terrore cieco è un omaggio al grande Hitch.

Paradossalmente, con i limiti accennati, questo schema di storia permette a Fleischer di mettere in luce le sue doti di regista. Sul piano tecnico, il regista sperimenta ancora una volta una messa in scena, la cui base è solidamente classica ma che viene modernizzata da carrellate flessibili e leggeri spostamenti, angoli bassi e grandangoli. Si adatta perfettamente alla sceneggiatura virtuosa ma monocorde di Brian Clemens: l’oscillazione tra terrore soggettivo (il punto di vista di Sarah) e oggettivo (il punto di vista dello spettatore) è costantemente dialettico. Lo spettatore è, come nel caso di Alfred Hitchcock, un passo avanti rispetto ai protagonisti, ma Fleischer non gliene concede mai a lungo il beneficio: i colpi di scena e la suspense giocano con le unità di luogo, tempo e azione in modo tagliente. Il montaggio della musica sull’immagine è, inoltre, straordinariamente preciso.

Un momento forte di cinema puro, un vero cult, è quello in cui Mia Farrow si ritrova sola la prima notte, senza rendersi subito conto che i morti sono ovunque in casa, dormendo persino vicino alla cugina sgozzata. Allo stesso tempo, la zia è sdraiata sul divano del soggiorno e lo zio nella vasca da bagno insanguinata. Guardare Mia Farrow girovagare senza sospettare inizialmente nulla finché non viene allertata dalla lunga assenza della sua famiglia, è davvero terrificante. È qui che entra in gioco un secondo talento del regista: quello della gestione impeccabile degli attori (grazie ad una protagonista che si impegna oltre l’inverosimile). Come nella scena in cui fugge attraverso una foresta fangosa per approdare nel piccolo accampamento gitano. O in quella, memorabile, nella quale l’assassino cerca di annegarla nella vasca: una scena che sembra eterna, magistralmente orchestrata. Semmai, sono ancora una volta la sceneggiatura e le sue facili scorciatoie a fallire. Lo stalliere moribondo che aiuta Sarah a ritrovare il braccialetto dimenticato dall’assassino e sul quale è scritto il suo nome, poi gridando a gran voce senza poter aiutare la non vendente a leggere quel nome misterioso; e poi un salvataggio in extremis francamente troppo telefonato, tirato via… 

Si potrebbe discutere a lungo sulla scelta di Richard Fleischer, il suo sceneggiatore Brian Clemens e il suo direttore della fotografia Gerry Fisher di non mostrare mai il volto dell’assassino e di filmarlo solo dal basso (la sua personalità è costituita da un semplice accumulo visivo di segni ma resta tuttavia misteriosa, ontologicamente mostruosa, totalmente altra). Se questa scelta permette di identificare immediatamente la presenza dell’assassino in agguato non appena la cinepresa tocca terra – con prodezze tecniche, ampi movimenti circolari – d’altro canto limita la suspense a un processo unico e ripetitivo. A poco a poco la scelta stilistica viene assimilata e il clima si stabilizza. Fleischer e Fisher moltiplicano le inquadrature oblique, accentuando così la solitudine dell’eroina e la pericolosità ambientale, facendo emergere tutte le caratteristiche della sua psiche, dapprima inquieta, poi terrorizzata, riuscendo a far rabbrividire il pubblico quando Sarah si avvicina al pavimento della cucina cosparso di schegge di vetro. Fleischer riesce più in generale e magistralmente a rendere angosciante la casa e i suoi molteplici angoli, distillando gradualmente i dettagli e moltiplicando i punti di vista. Il più delle volte opta per riprese fuori campo, giocando con formidabile efficacia sulla soggettività dello spettatore. Da questo punto di vista tutta la parte relativa ai cadaveri sparsi per la casa è esemplare, poiché non sarà stato mostrato alcun omicidio. Allo stesso modo, un semplice colpo di fucile nel cortile, con la terra smossa dal vento, crea un clima opprimente. Si instaura una paura sorda che risveglia i sensi dello spettatore e amplifica quelli dell’eroina. A conclusione, Fleischer gioca magnificamente sul contrasto tra il clima pacifico della cittadina dai bei colori autunnali e l’aridità dell’azione che emerge solo a sprazzi ed è necessario ammettere che finisce per dare al film il carattere che forse gli mancava grazie alla sua audacia tecnica. Insomma, Brian Clemens diventa strumento per indurre Richard Fleischer a fare un eccellente esercizio di stile, un’opportunità per il regista di mostrare la sua maestria: l’innegabile capacità di di far parlare (o meno) le sue immagini (un sottile cambio di angolo visuale e tutto si svela – l’arte del off-camera e on-camera), ma anche il buon gusto di non sovraccaricare il film di dialoghi, di cercare di far durare la suspense.

Terrore cieco fu generalmente frainteso al momento della sua uscita: i critici lo biasimarono per la mancanza di una chiara motivazione dell’assassino e lo videro niente più che un’efficace B movie. Il paragone poi con Gli occhi della notte fu penalizzante, nonostante – pur partendo da un tema affine – emergesse una concezione estetica e drammaturgica completamente diversa. Il titolo inglese See No Evil deriva proprio dal gioco del regista con i segni della demenza. I protagonisti “vedono” la realtà e comprendono la verità del male solo all’ultimo momento, e spesso troppo tardi. Non riescono a vedere il male quando è davanti ai loro occhi. Occhi che i cadaveri tengono aperti su una verità ormai impossibile da chiarire mentre una donna cieca si aggira tra loro per un’intera notte. Si può dire che il film completa la “trilogia psicopatologica” di Fleischer, iniziata con Lo strangolatore di Boston (1967) e L’assassino di Rillington Place n. 10 (1970).

In definitiva, questo thriller dalla scrittura lineare, che può apparire di routine, si rivela un film segreto il cui tema stesso è quello di un segreto insondabile, al di là delle parole ma anche al di là delle immagini. L’aporia del male, di cui Fleischer è uno dei maestri del cinema, è espressa nella struttura stessa del film. All’inizio, durante la prima inquadratura, tra gli spettatori che escono dalla sala contemporaneamente all’assassino, nessuno è consapevole di aver assistito al film accanto a un assassino “potenziale”, non ancora “in azione”. E alla fine, l’ultima inquadratura è quella degli spettatori affascinati e spaventati, tenuti a distanza e ammassati dietro un cancello, in una notte buia. L’ironia è discreta ma sostanzialmente tragica. Anche loro non riescono a vedere il male, di cui ora conoscono gli effetti ma non la causa. Anche loro sono terrorizzati ma restano ciechi perché non hanno visto quello che noi abbiamo visto, quello che solo la regia di Fleischer ci ha fatto vedere per 89 minuti: cioè, in ultima analisi, l’impossibilità di ogni discorso sul male.

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2 risposte a “Non vedere il male”

  1. Ricordo di aver visto questo film… la recensione mi ha fatto venir voglia di recuperarlo, insieme agli altri due titoli citati. Perfettamente d’accordo sull’efficacia di certe scene!

    1. Avatar Alessandro Garavaglia
      Alessandro Garavaglia

      Gentilissima, piacere di conoscerla. Se tornerà a rivedere questo film, avremo raggiunto il nostro scopo! Un saluto

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