Da Mery per sempre e Ragazzi fuori in poi (ne abbiamo parlato qui la scorsa settimana), entrambi firmati da Marco Risi, il bisogno di raccontare sul grande schermo (ma non solo lì) le realtà più scomode del nostro paese cresce in maniera esponenziale, fino a dare origine, se non proprio a un movimento, quanto meno a una tendenza caratteristica di un certo cinema italiano dei primi anni Novanta, subito ribattezzata, in maniera frettolosa e non troppo equilibrata, neo-neorealismo. Se il bisogno di raccontare la realtà senza filtri era comunque autentica, del neorealismo storico mancava completamente quel senso di responsabilità storica, quella sorta di consapevolezza di contribuire a un affresco collettivo, necessario e indispensabile, di un’epoca maledetta. Nonché, l’idea – tutta estetica – di riscrivere le regole base della grammatica filmica.
Quella degli anni ’90 fu viceversa un’avventura frammentata e individuale, legata a nomi (inevitabilmente) più modesti rispetto ai mostri sacri di cinquant’anni prima, quasi sempre lontana da grandi affreschi storici e più concentrata su singoli eventi di cronaca che, per quanto emblematici, quasi mai riuscirono a elevarsi ad apologhi universali.
Eppure, come già sottolineato, nonostante i limiti fu una parentesi generosa e onesta, che avrebbe potuto segnare l’avvio di un filone interessante con prospettive narrative di sviluppo a dir poco infinite.
Purtroppo, non sarà così.
Il branco, film del 1994, diretto da Marco Risi, di tutto questo rappresenta probabilmente il capitolo finale, sintetizzandone le ambizioni, le velleità e i fallimenti. La pellicola è tratta dallo splendido romanzo omonimo di Andrea Carraro (scrittore tragicamente sottovalutato), uscito per Theoria nello stesso anno. La storia è ispirata a un fattaccio realmente accaduto nella provincia romana nel 1983, quando due autostoppiste tedesche furono sequestrate e violentate da un branco di balordi, i quali poi chiamarono diversi uomini del paese che abusarono delle ragazze per quarantotto ore.
Il romanzo, e quindi il film, incentra la narrazione sul personaggio di Raniero, apparentemente la parte buona del paese, onesto giovane felicemente fidanzato che ambisce a una carriera nell’arma dei Carabinieri. Ma in realtà egli è totalmente succube delle leggi del branco. Dopo un fine settimana di balordaggine passato insieme agli amici più trucidi, nel corso del quale tradisce la fidanzata e partecipa a furti e scorribande, si lascia coinvolgere nel sequestro delle due ragazze tedesche. Non partecipa allo stupro, ma è ugualmente colpevole, visto che accetta di fare da guardia a una delle ragazze mentre l’altra viene violentata. Non solo. Spaventato dal giudizio del branco, impedisce alla ragazza di fuggire, ed è lui a proporre agli altri di chiamare gli adulti del paese per partecipare agli abusi. Alla fine, dopo che una delle ragazze ripetutamente violentata muore per un colpo di martello alla testa datole per impedirle di ribellarsi, l’altra riesce a scappare e a denunciare, tra tutti i partecipanti, proprio Raniero.
La grandezza del romanzo è proprio nella capacità di mettere in luce, senza filtri né artifici, con una prosa lucida e spietata, la brutalità di certi meccanismi sociali della più abietta provincia, senza indulgenze né patetismi, ma con un rigore feroce capace di mettere sul banco degli imputati un’intera società. L’ambizione del film sarebbe la medesima. Il regista Risi, del resto, con la dilogia Mery per sempre – Ragazzi fuori, era già riuscito in un’operazione del tutto simile. Ma in questo caso l’ambizione resta tale e i risultati finali sono assai lontano dagli intenti. Il film ha il pregio di affrontare un argomento che definire scomodo (nel 1994) è dire poco, e soprattutto quello di non indugiare sullo stupro di gruppo, ma di lasciarlo off, in un non visto fatto di grida e rumori che ne aumentano a dismisura la bestialità e l’insostenibilità.
I pregi tuttavia finiscono qui. L’autenticità del romanzo si annacqua in una sceneggiatura con dialoghi non all’altezza della storia raccontata. Un buco che risiede interamente nella mancanza di autenticità. In altre parole: i pur bravi interpreti, in possesso per di più di un romanesco per nulla artefatto, non sono lo stesso credibili.
Recitano. Il che fa crollare di colpo l’impianto ultra realistico che si vorrebbe restituire. La grandezza di Mery per sempre risiedeva proprio nel fatto che a interpretare i personaggi fossero i “ragazzi di vita” palermitani, con un effetto di autenticità indimenticabile, capace di spazzare via ogni sottolineatura retorica, ogni patetismo. Qui accade il contrario, e la recitazione, paradossalmente, demolisce la credibilità della storia, di quei toni vertiginosi e avvelenati delle pagine del romanzo.
Non a caso, del cosiddetto neo-neorealismo, Il branco si colloca idealmente al capolinea. Una sorta di simbolico vorrei ma non posso, la mancanza di osare un registro estetico che il mercato iper specializzato alle soglie del nuovo millennio, non è più disposto a rischiare.
L’ennesima occasione perduta.
Peccato.
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