I media, alla metà degli anni Novanta, definirono “cannibali” – sulla scorta di una fortunata antologia di racconti pubblicata da Einaudi – un gruppo in realtà del tutto eterogeneo di scrittori (Ammaniti, Culicchia, Nove, Brizzi, Teodorani, Ballestra, Santacroce… ) che in comune avevano ben poco, se non l’età (tutti nati a cavallo tra i Sessanta e i Settanta) e il bisogno di andare al di là tanto delle gabbie stereotipate dei generi quanto del piattume del mainstream. In altre parole, giovani scrittori audaci e vogliosi di raccontare la realtà del mondo post ideologico e neo globalizzato, i suoi lati oscuri, le sue misure, in particolare il tedio e l’angoscia di una generazione, la cosiddetta “X generation”, lasciata di colpo orfana di ogni punto di riferimento, impantanata in un nulla paralizzante e desolato. E che, stilisticamente parlando, cercarono soluzioni spericolate, estreme (da cui il termine “pulp” spesso a loro associato), attualizzando e rinvigorendo la lezione di Tondelli.

Per il cinema dell’epoca, che parimenti cercava una sua identità post guerra fredda, l’universo della letteratura cannibale fu una specie di mare magnum cui attingere a piene mani. Ma i risultati furono spesso e volentieri decisamente al di sotto delle aspettative. Proprio la scorsa settimana, su queste pagine, si parlava dei limiti de Il branco diretto da Dino Risi e tratto dal romanzo di Andrea Carraro. Altre operazioni, come la versione cinematografica del cult di Enrico Brizzi Jack Frusciante è uscito dal gruppo, con l’esordiente Stefano Accorsi e diretto da Enza Negroni, o L’ultimo capodanno tratto dal racconto di Ammaniti e diretto ancora da Risi, o ancora La guerra degli Antò tratto dal bel romanzo di Silvia Ballestra ridotto per la regia di Riccardo Milano, risultarono del tutto deludenti.
Senza rammentare l’intera filmografia “cannibale”, l’unico film che riesce a rispettare – se non addirittura a rilanciare – il livello del romanzo, è Tutti giù per terra, tratto dal romanzo di Giuseppe Culicchia e diretto da Davide Ferrario, con un cast d’eccezione che va da Valerio Mastandrea (al suo esordio) a Caterina Caselli, da Carlo Monni ad Anita Caprioli (senza contare camei memorabili, come quello dei CSI nel ruolo di una commissione d’esame o quello di Luciana Littizzetto e di Vladimir Luxuria).

Il protagonista, Walter, è l’incarnazione della X generation colta e dipinta nel suo momento più drammatico, la crescita, che da complicata si fa impossibile in quanto generazione di mezzo, alienata per eccellenza e impossibilitata a definirsi, obbligando così tanto lo scrittore quanto il regista a riscrivere e reinventare codici e stili dell’eterno romanzo di formazione. Walter infatti non vuole ma nemmeno può adattarsi ai modelli del padre, non per scontro generazionale, ma per una società in trasformazione che relega il ragazzo e i suoi coetanei a essere puro transito. Emblematica per questo la sequenza dell’occupazione, che diventa non tanto parodia, quanto svuotamento degli intenti e dei contenuti di quelle passate. Walter, e con lui la sua generazione, finisce giocoforza e suo malgrado in una sorta di stanco e liquido nichilismo, in un’alienazione perpetua che lo porta a estraniarsi da tutto e a rifiutare ogni cosa: il sesso facile, l’impegno politico, i sussulti ideologici, la droga a buon mercato come via di fuga. Un vuoto cosmico in cui l’unica eccezione pare essere l’etica anarchica di un campo rom, solo luogo in cui Walter pare sentirsi vagamente a suo agio. E proprio con una giovane rom, in un finale indimenticabile, perderà la verginità.

Un apologo generazionale senza la rabbia di Prima della rivoluzione e senza l’ideologia di Porci con le ali, sfumato e inafferrabile come i tempi che lo generarono. Lo stile aggressivo e disperato di Culicchia viene ulteriormente nobilitato dalla regia di Ferrario, frastagliata e volutamente frammentaria, capace di utilizzare la grammatica del videoclip non per puro gioco estetico ma come elemento straniante, che unito all’uso insistito della voice over del protagonista, trasforma Torino in un labirinto stinto, location ideale dell’ingorgo esistenziale in cui precipita un’intera generazione. Libro e film si ergono ad affresco generazionale grazie a un andamento narrativo a strappi, episodico e paratattico, come a negare la possibilità di un discorso logico consequenziale, di un senso compiuto e realizzato. “Ma tu guarda che animali stronzi c’è in circolazione in questo momento storico!”, esclama un gigantesco Carlo Monni (attore scandalosamente sottovalutato qui in una delle sue prove migliori, da antologia la serenata per la trans interpretata da Luxuria sul lungopo) nel commovente finale, riferendosi all’armadillo della datrice di lavoro di Walter, ma in realtà esprimendo per metafora uno smarrimento storico colossale e irripetibile, nonché prefigurando i tristi scenari futuri.

Film suo malgrado di protesta e grondante rabbia generazionale. Forse così tanto generazionale da risultare, oggi, invecchiato in diversi passaggi (destino anche di capolavori come Io sono un autarchico, tanto per fare un esempio illustre), ma testimone di una stagione del cinema italiano assai più felice di quanto sembri, di un gruppo di giovani registi capaci di rivendicare una libertà stilistica e di tracciare possibili strade per un cinema d’autore del futuro.

Progetto purtroppo, come sappiamo e non certo per responsabilità degli autori di cui sopra, abortito miseramente, schiacciato dal mainstream e dalle logiche claustrofobiche delle film commission.
Restano, per fortuna, bei film come questo, che per quanto datati sono ancora fruibilissimi. E ancora in grado di farci comprendere la necessità di battere nuove strade per raccontare, con sincerità e senza fronzoli, il nostro tempo.

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