L’angelo del crimine (El angel, 2018) racconta la storia di Carlos Eduardo Robledo Puch, alias “Carlito”, autore di 11 omicidi e 42 furti tutti compiuti tra il 1971 e il 1972 durante uno dei non rari periodi in cui l’Argentina era governata dai militari. Nonostante il grande successo di pubblico nel suo paese, il pur meritevole film non ha ottenuto riconoscimenti dalla critica internazionale. Eppure questa pellicola di Luis Ortega, disponibile su Amazon Prime, meriterebbe un recupero per i molti elementi originali e degni di nota.
A colpire è innanzitutto l’approccio estetizzante alla figura del protagonista, reso dal regista una sorta di via di mezzo tra il Tadzio di Morte a Venezia e l’Alex di Arancia meccanica. Sì perché se è vero che Carlito sembra un giovane cherubino con la sua espressione di adolescente acqua e sapone – in questo senso la scelta dell’attore Lorenzo Ferro è tanto fedele alla realtà al punto da sembrare mimetica – è altrettanto vero che si tratta di un figlio di buona donna capace nella realtà di ammazzare a sangue freddo civili indifesi sorpresi a dormire o di sparare contro la culla di un neonato. Nessuna riserva di carattere morale sembra in grado di frenare le azioni di questo “angelo”, tanto seducente quanto inquietante, che conduce lo spettatore oltre il male, in una sorta di assoluta incoscienza, con l’unico intento di “disfrutar” (godere) la vita senza costrizioni, contro ogni ordine.
Un altro merito del film è il suo ritmo serrato: Ortega ci tiene in sospeso con una storia che mescola azioni folli, violenza fredda, situazioni erotiche, musica accattivante e tono ipnotico. Una scelta quasi obbligata per un film di genere, sebbene L’angelo del crimine sia molto più originale e complesso di numerose altre opere biografiche sui gangster. La scelta sapiente degli attori accentua ancora di più questa caratteristica e nel cast appaiono star di generazioni diverse, riconoscibili e ammirate sia a livello nazionale che internazionale. In particolare Ricardo Mario Darín “El Chino”, sebbene lontano dai livelli del padre Ricardo Darín, offre una buona performance nel ruolo di Ramón, il compagno di scorribande di Carlito legato al protagonista da una latente attrazione omosessuale, e Cecilia Roth, nota al pubblico europeo soprattutto per le sue parti in numerosi film di Almodóvar, riesce in poche sequenze a connotare con accenti drammatici il ruolo della madre del protagonista.
Un buon lavoro è stato svolto inoltre per le scene, i costumi e la fotografia. Tutto è realizzato con cura: la Buenos Aires degli anni ’70 è ritratta come sgargiante, il comportamento dei giovani rilassato e spontaneo, quello dei vecchi un po’ più severo. Gli outfit si trovano al crocevia tra moda hippie, colori e fantasie retrò, architettura e simmetria adornano le case della classe media, i bellissimi quartieri sembrano sicuri e felici, i banditi sono facilmente identificabili. È tempo di rock e disco, pantaloni a zampa d’elefante e stampe psichedeliche, ma anche di militari al potere e problemi come la droga, la corruzione e le armi sono ancora lontanissimi dall’essere risolti.
Ecco così che la vicenda di Puch, sembra suggerire Ortega con il suo film, diventa fortemente simbolica. L’angelo del crimine rovescia gli stereotipi perché la bellezza qui emerge più criminale della bruttezza. L’angelo sembra rappresentare il frutto marcio di una società malata, che nasconde e maschera la violenza assoluta e la peggiore corruzione morale dietro un’apparenza spensierata e frivola e la bellezza di un volto efebico.
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