Alla vigilia del suo settantottesimo compleanno, al quale ha invitato i figli Kevin (David Warner) e Claud (Dirk Bogarde), oltre a Sonia (Ellen Burstyn), moglie di quest’ultimo, lo scrittore di successo Clive Langham (John Gielgud) affronta per una notte alcuni dei punti più emblematici della sua lunga esistenza. L’età, ma anche la malattia, rendono la morte sempre più vicina, il romanziere arriva così a compiere una sorta di esame di coscienza. Tra i punti esistenziali su cui si concentra Clive, dominano i suoi rapporti con Kevin, Claud e Sonia ma anche con la sua defunta moglie, Molly (Elaine Stritch). Il matrimonio e la paternità non sono state esperienze facili per Clive…
Amare la morte. Odiare la vita. Le sue, quelle degli altri… Sono questi i “futili” oggetti materia di riflessione in Providence (id., 1977), di Alain Resnais, con i quali si confronta il suo eroe, Clive Langham, durante un viaggio nella notte dentro sé stesso. Un’impresa del genere non avrebbe potuto essere sostenibile cinematograficamente se non fosse stata guidata da Resnais, un cineasta che non ha mai avuto paura di frequentare “cattivi soggetti”. Per nulla gravoso e certamente proficuo, l’esercizio offerto agli spettatori da Providence si impone, al contrario, come un’esperienza indiscutibilmente singolare, la cui potenza di sortilegio estetico disegna vertiginosi abissi riflessivi…
Providence è innanzitutto affascinante per la sua costruzione barocca, governata come fosse un collage. Il film combina infatti elementi tratti da generi apparentemente antitetici. Il primo appartiene alle categorie considerate “nobili” dalle gerarchie comunemente accettate in materia di narrativa. Come rivela immediatamente la sinossi, Providence è in parte una storia psicologica e introspettiva. A questo quadro narrativo particolarmente fertile nelle grandi opere letterarie – da Marcel Proust all’autofiction contemporanea passando per Virginia Woolf; riprese dal cinema da Ingmar Bergman, Éric Rohmer passando per Woody Allen – Alain Resnais prende in prestito non solo un soggetto ma anche elementi emblematici. Tra questi ultimi anzitutto quello del monologo che permette al personaggio di Clive di dichiarare allo spettatore, durante le scene ricorrenti, la sua interiorità psichica, descrivendola e commentandola grazie al duplice vantaggio del suo isolamento notturno e dell’ebbrezza generata dall’alcol che ingurgita. Confessioni di un bevitore solitario contrappuntate da sequenze collettive fortemente psicologizzate. Il pranzo di compleanno del patriarca romanziere, circondato dai suoi due figli e dalla nuora attorno allo stesso tavolo – sotto l’occhio “fotografico” della moglie e madre defunta, il cui ritratto si trova lì vicino – riunisce tutti gli ingredienti dello psicodramma. Anche qui, con l’aiuto del vino, le lingue si sciolgono, diventano sempre più dure finché certe verità tanto inquietanti quanto represse vengono improvvisamente liberate…
Ma Providence non si limita al solo ambito del dramma psicologico. Il film testimonia infatti il gusto di Alain Resnais per universi immaginari considerati tuttavia subordinati rispetto alle consuete gerarchie formali e narrative.
Per esempio, è l’unico “film d’arte” a presentare la figura del licantropo! Quest’ultimo appare per la prima volta, durante una sequenza ambientata alla periferia di Providence. Scene che mostrano un vecchio che si fa strada faticosamente attraverso una fitta boscaglia. È scarmigliato, i suoi vestiti strappati, il viso e le braccia nude ricoperte di peli corti e ruvidi. L’impressione che dà è quella di una bestia feroce braccata. La creatura (interpretata da Samson Fainsilber) è in realtà inseguita da una banda di soldati che battono la vegetazione, avanzando nel bosco mentre sparano a caso raffiche di mitragliatrici contro i cespugli. A questa sequenza iniziale farà seguito, quasi alla fine di Providence, una seconda in cui Resnais ritrae questa volta il personaggio di Kevin in fase di metamorfosi in una sorta di animale umano, peloso e irsuto, anch’esso inseguito nel bosco da un cacciatore – Claud – desideroso di ucciderlo. Questi episodi di caccia ai mostri riecheggiano irresistibilmente quelli che punteggiano alcuni classici del cinema horror sul licantropo, come L’uomo lupo (1941) di George Waggner con Lon Chaney Jr. o anche L’implacabile condanna (1961), di Terence Fisher con Oliver Reed. Alcune scelte di Alain Resnais in tema di cast possono ancora essere interpretate come possibili ponti tra l’universo di Providence e quello del cinema fantastico. Quando il regista iniziò le riprese del film, i volti di Ellen Burstyn e David Warner erano infatti più che familiari agli amanti delle emozioni cinematografiche. Tre anni prima, l’attrice aveva trovato la fama interpretando Chris MacNeill, la madre della posseduta Regan, ne L’Esorcista (1974) di William Friedkin. Quanto a David Warner, era apparso poco prima in un altro blockbuster horror degli anni ’70: Il presagio (1976), di Richard Donner dove l’attore interpretava il fotografo Keith Jennings. E si potrebbe anche segnalare la presenza, tra i ruoli secondari, dell’attrice Kathryn Leigh Scott (incaricata del ruolo di Miss Boon), una delle interpreti ricorrenti della serie televisiva americana sui vampiri Dark Shadows (1966-1971) da cui Tim Burton ha realizzato il film omonimo nel 2012.
Questa collocazione di Providence sotto il segno del “genere fantastico”, non si basa però su riferimenti esclusivamente cinematografici o televisivi. Sul film incombe anche l’ombra della letteratura horror: più precisamente quella del romanziere americano Howard Phillips Lovecraft. Resnais non ha mai nascosto la sua passione per lo scrittore, tanto da avergli dedicato un mediometraggio nel 1969.
Da notare che il nome dato alla vasta tenuta di Clive Langham – e che dà il titolo al film – è anche il toponimo della città natale dello scrittore. Così come alcune ambientazioni di Providence fanno riferimento anche agli spazi inquietanti cari a H.P.Lovecraft, in particolare come il megalite che si nasconde in fondo a una fitta foresta e ai piedi della quale Alain Resnais uccide il suo secondo lupo mannaro. E si potrebbe anche aggiungere il castello gotico abitato da Clive, una dimora angosciante oscillante tra magnificenza e rovina, molto simile a quelle in cui H.P.Lovecraft collocava i suoi personaggi di aristocratici in via di degenerazione (ma viene anche alla mente l’hitchcockiano maniero di Manderley).
Quindi un insieme di riferimenti (Lovecraft, Universal, Hammer…), prestiti che rendono Providence un fantastico assolutamente singolare. Formalmente accattivante, questo esercizio di collage tra dramma psicologico e incubo terribile non è, tuttavia, un approccio esclusivamente estetico. Funzionando come un aggregatore, la messa in scena serve anche straordinariamente allo scopo, cioè all’affermazione del carattere essenzialmente combinatorio dell’immaginazione: immergersi nel profondo della mente per svelarne i meccanismi più essenziali, ecco il programma di Providence. Un obiettivo che del resto Alain Resnais dichiara agli spettatori fin dalla sequenza iniziale. Una successione di inquadrature, tutte obbedendo ad un movimento itinerante ipnotico, ci trasporta sempre più in profondità nello spazio formato dalla “Provvidenza”, il dominio di Clive. La cinepresa riprende dapprima solo i rami degli immensi alberi che circondano la magione dello scrittore, e anche quelli delle piante rampicanti che ne ricoprono le pareti. Come a voler ricreare l’equivalente vegetale di una rete neurale, generando la convincente sensazione di risalire ai livelli più nascosti nella massa cerebrale. Questa sensazione di penetrare nell’interno stesso della mente umana non si dissipa quando, alla fine della sequenza, si abbandona “Providence Park” per entrare nella villa dove risiede Clive, soprattutto se si ricorda che Freud fece della casa la metafora dello spazio psichico.
Condotto nella mente di Clive, lo spettatore viene orientato dal cineasta verso le regioni della psiche in cui risiede l’immaginazione. Permettendoci di osservarlo più da vicino, Providence afferma magistralmente la centralità dell’insieme nella sua costruzione. Gli episodi sui licantropi sono, per questo motivo, particolarmente rivelatori. Abbiamo già ricordato ciò che le visioni dei lupi mannari che si formano nella mente di Clive devono al cinema horror di Hollywood (e non solo). Ma la finzione non è l’unica fonte che irriga le visionarie fantasie dello scrittore. La sua stessa esistenza reale alimenta la sua fantasia, come dimostrano alcune scene della cena di compleanno. Durante questa sequenza, sullo schermo appare la coppia di cani che possiede Clive. Questi due animali, con orecchie da lupo e pelliccia più che abbondante, emergono quindi come ispirazioni molto probabili per le creature metà umane e metà canine raffigurate nella fantasia del romanziere. Sempre durante questa sequenza di Providence incentrata sul settantottesimo compleanno di Clive, il romanziere descrive il suo rapporto con il figlio Kevin, frutto di una relazione adultera con termini “animaleschi”: “Il mio amato bastardo… Ho firmato il suo pedigree come per un cane di razza!”.
Cogliendo quindi elementi inizialmente eterogenei – in alcuni casi finzioni artistiche, in altre realtà materiali o emotive – l’immaginazione di Clive li incolla letteralmente insieme. Da questo processo di sintesi scaturiscono tante fantasie che permettono al personaggio di rappresentare, finalmente, i suoi pensieri più indicibili, perché troppo angoscianti. O addirittura tabù. La prima delle sequenze sui licantropi offrirà così l’opportunità a Clive di confrontarsi con l’idea traumatica della propria imminente scomparsa (a causa della malattia). Possiamo vedere nel vecchio lupo mannaro messo a morte, un doppio immaginario dell’uomo anziano e rattrappito che è lo scrittore. Inoltre, lo spettatore non mancherà di notare che il licantropo senescente viene ucciso da una seconda figura immaginaria che assume le fattezze di Kevin. Come se questa visione fabbricata dall’immaginazione di Clive gli permettesse di affrontare non solo la paura della propria morte, ma anche la paura – ancora più inquietante – di essere vittima di un parricidio. Il personaggio di Kevin riapparirà durante il secondo momento di licantropia. Ma la fantasia di Clive realizza una nuova combinazione, il posto del lupo mannaro viene preso da Kevin mentre quello del suo carnefice da Claud. Che è la rappresentazione dell’angoscia di una possibile lacerazione fratricida tra i due figli del romanziere proprio a causa sua.
Senza dubbio inquietanti, i flash mentali di Clive sono comunque di grande utilità. Esplorati gli angoli più problematici della sua psiche, l’eroe di Providence può, al termine di questo esame di coscienza o meglio di immaginazione, fare pace con sé stesso così come con la sua famiglia. Incarnando quasi un’“Ultima Cena”, il pranzo di compleanno dello scrittore si trasforma in una cerimonia di addio alla sua famiglia (e a se stesso), commovente e serena. L’immaginazione, quindi, non è solo fonte di creatività, ma aiuta anche a vivere e a morire.
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