Ho sempre pensato – e continuo a pensarlo – che Christiane Ferschelow, meglio nota come Christiane F., autrice di quel libro necessario, eccezionale e straziante che è Wir Kinder vom Bahnhof Zoo (da noi conosciuto con la traduzione non proprio corretta Noi i ragazzi dello zoo di Berlino), sia una delle persone più intelligenti d’Europa.
Quanto meno, tra le poche ad aver detto cose intelligenti, sensate ed incisive sul problema – drammatico, terrificante e urgente oggi come allora – della tossicodipendenza. Al di là dell’estrema, ma necessaria, violenza del racconto – così forte che ancora oggi ferisce a sangue, il più dirompente schiaffo mollato in faccia all’ipocrisia dell’occidente – e al di là anche di alcune ingenuità dell’allora quattordicenne Christiane – riconosciute da lei stessa nel suo secondo libro, La mia seconda vita, a partire dalla totale assenza di tutela con cui fece nomi e cognomi raccontando dettagli molto più che intimi, mettendo nei guai se stessa e gli altri, a partire dai suoi familiari – quel libro resta a tutt’oggi il più sincero, sconvolgente, completo, indispensabile e devastante mezzo per conoscere e comprendere la tragedia dell’eroina.
Conoscerla e comprenderla davvero, senza mezzi termini, senza omissioni, moralismi, maledettismi o accondiscendenze di sorta. Un libro che dovremmo continuare a far leggere agli adolescenti di oggi. Che, anche se nessuno lo dice, stanno lentamente – ma inesorabilmente – tornando a precipitare in un inferno assurdamente simile a quello che da fine anni settanta fino ai primi novanta falciò senza pietà tre generazioni.
Proprio per questo – perché il problema non è mai stato risolto, soltanto dimenticato, salvo poi ripresentarsi in questi ultimi anni con gli interessi – ho salutato con grande entusiasmo l’uscita, qualche anno fa, sulla piattaforma Amazon Prime, della serie tv tratta dal libro. Purtroppo però, conclusa la visione, non solo le grandi aspettative sono state totalmente deluse, ma resta soprattutto addosso la grande amarezza per una gigantesca occasione mancata.
Ma che cosa non funziona di questa serie?
Molti hanno detto e scritto l’eccessiva modernizzazione. Sono d’accordo a metà. Nel senso che era impensabile fare un’operazione di recupero filologico in tutto e per tutto. Inevitabile, soprattutto perché i protagonisti sono adolescenti, che ritmi e linguaggi abbiano subito un adattamento, una velocizzazione ai tempi moderni. Riportare i tempi narrativi dell’epoca era decisamente impossibile. Inoltre, i visi degli attori – tra l’altro, tutti bravissimi – sono pienamente centrati, volti delicati e disperati ante crollo del muro. Del tutto fuori luogo invece la fotografia, che non restituisce in nulla i colori del tempo, le ambientazioni, i rumori e via dicendo. Più di una volta, pur sapendo – perché le didascalie non mancano mai di sottolinearlo – che siamo sul finire dei Settanta, viene da chiedersi in che razza di anno siamo.
Ma, ripeto, si tratta del problema minore.
La grandezza del libro di Christiane sta tutta nella straordinaria – e sbalorditiva – lucidità con cui l’allora quattordicenne è riuscita a denunciare il problema dell’eroina inquadrandone perfettamente il contesto, la natura, le cause e le conseguenze. In sostanza Christiane riesce a fotografare la natura completamente sociale del problema, che invece una società cieca, bigotta e troppo impegnata a celebrarsi nell’opulenza fasulla, e ancora tutta in fieri, del decennio delle grandi illusioni, si ostinava – e, assurdo!, si ostina ancora – a trattare soltanto dal punto di vista clinico e della pubblica sicurezza. Una società giustamente additata come complice e colpevole del più silenzioso e atroce degli olocausti generazionali.
Ancora più sbalorditivo che la giovanissima riesca a capirne l’essenza non nel pieno del dramma, ma nel momento stesso della sua nascita.
Prima della serie, ad ogni modo, è venuto il film diretto da Uli Edel. Celeberrimo e destinato a un successo planetario clamoroso, girato immediatamente dopo l’uscita del libro, finiva anch’esso per semplificarne la complessità. Ma era una semplificazione inevitabile, dettata dalla “ristrettezza” dei cento minuti della pellicola, troppo pochi per poter contenere il gigantesco affresco di denuncia sociale dipinto da Christiane.
E infatti, nonostante questo limite, il film ha comunque una potenza devastante intatta ancora oggi. La sincerità e la credibilità disarmanti dei giovanissimi interpreti (Natja Brunckhorst nel ruolo di Christiane su tutti), lo squallore angosciante degli esterni reali della Berlino Ovest del tempo (indimenticabili i carrelli sulla desolazione di tossicodipendenza e prostituzione del marciapiede esterno della Bahnhof Zoo), la crudezza spietata delle immagini, ne fanno un instant movie che, non al pari del libro ma senz’altro in modo efficace, riesce a colpire in piena faccia le nostre quiete coscienze, a sedimentarsi negli anfratti della bocca dello stomaco, proprio lì dove fa più male, e a non andarsene più.
Decenni dopo, i tempi narrativi lunghi e dilatati messi a disposizione dalla serialità, permettevano di approfondire in lungo e in largo gli aspetti cruciali del libro assenti nel film, di colmare nella narrazione per immagini quel senso di superficie lasciato dalla pellicola.
Ma è purtroppo un approfondimento che, nella serie, finisce per essere del tutto assente. E finisce per trasformare una complessa tragedia storica e sociale in un banale teen drama dove l’eroina è incastrata tra amorazzi, triangoli e crisi familiari.
E resta un problema non tanto incomprensibile, quanto che nessuno ha voglia di comprendere (e risolvere) davvero.
Una gigantesca occasione mancata.
Non tanto per noi ragazzi di allora, che avremmo voluto (legittimamente) una rappresentazione veritiera dei nostri tempi disperati. Ma per i ragazzi di oggi, che avrebbero potuto conoscere in profondità quel vuoto che oggi torna a soffiargli addosso per stritolarli.
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