Traumatizzato dalla caccia alle streghe che ha annientato suo padre negli anni Cinquanta, Thomas Babington Levy (Dustin Hoffman) – in arte Babe – è un giovane studente ebreo di New York, un solitario introverso che allontana le ferite del passato con gli studi e nella corsa. Con tenacia convince una giovane accademica svizzera (Marthe Keller) di cui si è innamorato a condividere la sua vita. La loro storia d’amore è l’inizio di una lunga e dolorosa discesa agli inferi che vedrà Babe incontrare un fratello (Roy Scheider) dagli oscuri disegni, un torturatore nazista (Laurence Olivier), ambigui agenti segreti americani e l’olezzo nauseabondo della Storia…

Ultimi giorni di riprese per Il maratoneta (Marathon Man, 1976), di John Schlesinger. Pochi minuti prima dell’applauso, Dustin Hoffman, all’epica al massimo della sua popolarità, inizia una corsa estenuante per perfezionare la scena successiva – che vede il suo personaggio senza fiato confrontarsi con Christian Szell, ex dignitario nazista interpretato da Laurence Olivier. Quest’ultimo, in un angolo del palco, aspetta stoicamente che il suo compagno finisca di fare jogging… A Hoffman sorpreso dalla sua impreparazione sulla scena, Olivier risponde “E se recitassi e basta?”

Famoso aneddoto che contribuisce a pieno titolo al mito del film. Ma come nel caso di John Ford , la leggenda si rivela più interessante della realtà, stupidamente prosaica. Come più tardi Dustin Hoffman rivelerà nelle sue memorie, se Sir Laurence Olivier pronunciò effettivamente queste parole (riportate dallo stravagante produttore del film, Robert Evans), allora si trattò più di un giudizio acido e irritato del grande attore shakespeariano sulla vita dissoluta di Hoffman, piuttosto che una critica alla sua recitazione.

Non soddisfatto di essere un thriller fantastico, Marathon Man è anche (e soprattutto?) uno shock ai massimi livelli: il confronto tra due attori, e di due concezioni radicalmente diverse della stessa professione, della stessa Arte. Da un lato, un Dustin Hoffman dall’impegno quasi stucchevole, che segue meticolosamente i precetti di Lee Strasberg, suo mentore all’Actor’s Studio: 10 chili persi per il ruolo, allenamento quotidiano di corsa, lettura assidua di opere dedicate all’Olocausto… Dall’altro Sir Laurence Olivier, degno rappresentante della vecchia scuola del teatro inglese e di un gioco antiquato che gli studenti di Strasberg si sforzano di smantellare con cura da vent’anni. Non possiamo giurare che John Schlesinger lo abbia fatto apposta, ma dobbiamo ammettere che l’idea di questo duo/duello è geniale, e il risultato scintillante.

La famosa scena chiave del film rimane ancora oggi una delle sequenze più forti del cinema contemporaneo. E questo tanto per la sua violenza bestiale quanto per l’incredibile intensità sprigionata dai due attori. Dopo questa scena non vedi più il tuo dentista nello stesso modo. In realtà, sono Hoffman e Olivier che non vediamo più nello stesso modo. Entrambi abbaglianti, e soprattutto in questa scena traumatica, sono la punta diamante di un film che tuttavia offre un’infinità di sorprese.

In sintonia con i due protagonisti, Marthe Keller, e soprattutto Roy Scheider, offrono qui una delle loro prestazioni più intense. Misteriosi e opachi, fanno parte del disagio e del veleno distillati nel film, magistralmente diretto da John Schlesinger. Artista senza eguali, Schlesinger firma qui il suo capolavoro.

Dal ritmo strano, Marathon Man sconcerta a prima vista, soprattutto nel primo terzo semplicemente sorprendente, che moltiplica audacemente, o meglio sfuma, le linee di demarcazione e i generi. Come l’intermezzo parigino, un’insolita parentesi narrativa che spezza letteralmente la storia, fino a quel momento molto classica. Sempre più opaca, la vicenda si tinge poi di una strana suspense, al limite del fantastico, e tanto più destabilizzante in quanto questa parentesi, sia nell’ambientazione che nel tono, sembra del tutto stonata rispetto alla prima bobina del film, interamente incentrato su Hoffman. Nei suoi momenti migliori, come l’aggressione a Scheider in un grande albergo parigino, o nell’angosciante scena notturna a Parigi, Schlesinger si confronta con il miglior Polanski . Stessa poesia dell’incongruo, dove un semplice pallone da calcio diventa metafora della paura e della morte. Stesso fascino per l’ambiguità e la stranezza della vita quotidiana. Stessa padronanza della grammatica cinematografica, dove l’ansia emerge da ogni inquadratura.

In un’ora, poi, Schlesinger offre il suo miglior cinema, moltiplicando scene memorabili in cui paranoia e tradimento si mescolano, nella grande tradizione dei film politici (Perché un assassinio , I tre giorni del Condor) o dei film fantastici (Rosemary’s Baby) dell’epoca. Poche inquadrature frontali, oscurità studiata, un fuori campo abilmente mantenuto, colonna sonora angosciante e minimalista bastano per riconnettersi con il meglio del thriller degli anni Settanta. Come la celebre sequenza della vasca da bagno, di una maestria deliziosa, che non ha nulla da invidiare alle più belle scene di paura girate da Jacques Tourneur. O, ovviamente, la mitica scena del dentista, modello del tempo che taglia e dilata (la ripetizione sistematica, fredda e meccanica della stessa, incomprensibile domanda: “È sicuro?”), che distilla in lunghi minuti un terribile disagio.

Maestro dei suoi effetti, Schlesinger interpreta poi l’intera gamma del thriller, aggiungendo di tanto in tanto il suo piccolo elettroshock (la morte di Scheider, la visita di Szell al quartiere ebraico…) per meglio immergere il suo spettatore in un mondo inquietante di profonda vertigine (la cena al ristorante, il personaggio di William Devane…). Impressionante e magistrale, Schlesinger tuttavia vacilla proprio alla fine, perché lo scontro finale non raggiunga mai le vette dell’ora precedente. Per quanto gli ultimi minuti siano frettolosi (ambientazione poco convincente, calo di tensione, atteggiamento incredibile di Szell, inquadrature non coerenti…), Marathon Man rimane comunque un “must”. Il degno rappresentante del miglior cinema americano degli anni ’70. Un cinema adulto e maturo che, pur imbrigliato nella camicia di forza hollywoodiana, fa convivere meravigliosamente la politica con l’intrattenimento. Mescolando piccola e grande storia, John Schlesinger crea un thriller avvincente, un’opera che non esita a cimentarsi con questioni storiche emblematiche mantenendo lo spettatore incollato alla sedia.

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