Che François Truffaut prima di diventare uno dei più influenti registi della sua generazione sia stato un brillante critico cinematografico è cosa arcinota. Inevitabilmente la sua filmografia ha finito con il relegare in secondo piano l’opera di divulgazione svolta prima di mettersi dietro (e in alcuni casi davanti) alla macchina da presa: infatti, a eccezione dello straordinario Le cinéma selon Alfred Hitchcock vera pietra miliare del genere, poco è rimasto nell’immaginario pubblico del fondamentale contributo del regista francese alla critica cinematografica. Ma se il celebre libro-intervista è un atto d’amore per il maestro del brivido, I film della mia vita (Les films de ma vie) è un atto di amore per il cinema tout court. Edito in Italia da Marsilio, il libro raccoglie alcuni articoli inediti e altri che sintetizzano – come chiarisce lo stesso Truffaut nell’introduzione Cosa sognano i critici – diversi pezzi precedenti dedicati allo stesso film. La suddivisione tradisce un certo gusto per la simmetria, radunando nella parte intitolata Il grande segreto i registi che hanno attraversato le due fasi del muto e dell’avvento del sonoro per poi procedere con La generazione del sonoro (un capitolo per Gli americani e uno per I francesi) e chiudere con i complementari Alcuni stranieri I miei amici della Nouvelle Vague.

I film della mia vita non dovrebbe mancare nella biblioteca di ogni cinefilo degno di questo nome, che ritroverà lo stesso stile leggero e ironico che contraddistingue i film di Truffaut: pagine che sanno alternare riflessioni brevi e incisive come quella su Fritz Lang “il più isolato e incompreso dei cineasti contemporanei”, polemiche contro chi imputa a Un re a New York la debolezza della sceneggiatura (come rimproverare al Nuovo Testamento la mancanza di suspense) e notazioni che trasudano affetto e ammirazione “ciò che Bogart faceva, lo faceva meglio di chiunque”.

La passione di Truffaut non distingue tra generi, mode o generazioni, indagando con sguardo acuto capace di oltrepassare i limiti di certa critica ottusa. Ce n’è davvero per tutti i gusti : da Dreyer e Bergman, Bresson e Renoir a Rossellini e Fellini e ancora Welles e Jimmy Dean, Nicholas Ray e Wilder e via enumerando. Come scrive Giorgio Tinazzi nella prefazione alla prima edizione italiana evocando un monumento culturale d’oltralpe, si tratta di un “sinuoso e avvincente itinerario à la recherche du cinéma”.

Aggiungo che questo lavoro di Truffaut, come il Chisciotte che Borges immaginava riscritto da Pierre Menard, assume un valore ancora maggiore con il passare del tempo. A distanza di quasi 50 anni dalla sua pubblicazione in Francia I film della mia vita trasforma il cinema in un ricordo depositato, che non può essere offuscato o cancellato. Inoltre – come saranno poi Fahrenheit 451 o, ancora di più, la sequenza de I 400 colpi che mostra Antoine Doinel, vero alter ego del regista, costruire l’altarino a Balzac – il libro è un omaggio ai grandi costruttori di storie, che suggerisce come la memoria del mondo sia soprattutto letteraria. Nota Truffaut che “esiste nell’idea di spettacolo cinematografico una promessa di piacere, un’idea di eccitamento che contraddice il movimento stesso della vita: lo spettacolo è qualcosa che sale, la vita qualcosa che discende. Si dirà che lo spettacolo compie una missione di menzogna; ma i più grandi uomini di spettacolo sono quelli che riescono a non cadere nella menzogna, e che fanno accettare al pubblico la loro verità senza tuttavia contravvenire alla legge ascendente dello spettacolo”.

Ricordarlo oggi, in una contemporaneità nevrastenica bulimica di storie e informazioni in cui le principali industrie cinematografiche sembrano in crisi creativa tra biopicremake e film che guardano più al politicamente corretto e agli effetti speciali che al valore della sceneggiatura e alla bellezza dell’inquadratura, ritengo sia il principale dovere di chi si occupa di critica e divulgazione.

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