Sarebbe una storia ideale per un romanzo o un film, tra il peplum, il giallo letterario ambientato nella Roma di Cicerone, con tanto di misteriosa morte causata da un filtro d’amore. Della vita di Lucrezio, l’autore del poema De Rerum Natura, che lo scrittore e poeta russo Josif Brodskij definì (con voluta iperbole) il più grande dei latini, si conoscono pochissimi dettagli, forse inventati, ma sufficienti a scatenare la fantasia di chi ama leggere romanzi, saggi o docufiction che hanno al centro i libri (antichi e moderni), la loro storia spesso complicata, i loro giri labirintici nei quali si perdono per riemergere secoli o millenni dopo: come il De Rerum Natura, protagonista de Il Manoscritto di Stephen Greenblatt, che racconta come il manoscritto del poema lucreziano fu scoperto solo nel XV secolo da Poggio Bracciolini (1380-1459), l’umanista fiorentino che scovò nel 1417 nell’abbazia di San Gallo, vicina al lago di Costanza, l’unica copia sopravvissuta del poema filosofico di Lucrezio. Era, quella di Poggio, un’epoca nella quale, pur di impadronirsi di un testo antico, si poteva rubare o uccidere (Il nome della rosa di Umberto Eco docet). Questa avventura è il tema del libro di Greenblatt, che racconta anche l’impatto delle idee di Lucrezio -ispirate a Epicuro- su artisti e pensatori vissuti molti secoli dopo, come Botticelli (la cui Primavera è ispirata al celebre inno proemiale a Venere), Giordano Bruno, Montaigne e Shakespeare, Freud e Einstein.

“Della vita del più significativo poeta e scienziato di lingua latina, Tito Lucrezio Caro, contemporaneo e frequentatore di Cicerone, sappiamo ben poco, a parte il breve romanzo biografico incentrato sul topico binomio «amore-follia», divulgato da San Girolamo” scrive Luciano Canfora nella prefazione al suo Vita di Lucrezio, uscito proprio nel 2024 per i tipi di Sellerio. Stando alle pochissime notizie tramandateci da scrittori cristiani del IV-V secolo d.C., San Girolamo in primis, Lucrezio morì suicida a 44 anni, verso il 51-50 a.C., pazzo; causa della sua follia: un filtro d’amore. L’autore del De rerum Natura, poema di circa settemila versi, che tutti gli studenti del Liceo classico conoscono per il ricordo di quello splendido inno proemiale a Venere, all’amore, alla natura che esplode di vitalità, visse negletto e solitario nella sua epoca, tutto dedito a comporre (per intervalla insaniae, dice San Girolamo, cioè nei momenti di lucidità concessigli dalla pazzia: probabilmente una leggenda o fake news) un poema che è scientifico e filosofico nello stesso tempo: Lucrezio si fa allievo e paladino del pensiero di Epicuro, considerato un eroe s-catenatore, un Prometeo a livello intellettuale, un salvatore dell’umanità. Secondo Lucrezio, ha liberato l’uomo dalla paura degli dei, della morte, del dolore, della noia. 

Il De Rerum Natura è dedicato a Memmio, un personaggio importante, genero di Silla, imparentato tramite un fratello, con Pompeo. Nel suo libro  Luciano Canfora racconta del colossale scandalo politico che coinvolse Memmio: il quale con Cneo Domizio, anche lui candidato al consolato, si mosse sul terreno della più sfacciata corruzione. Promisero una somma ingentissima, dieci milioni di sesterzii, alle centurie che votavano per prime, offrirono ai consoli in carica quarantamila sesterzi affinché corrompessero gli auguri. Cicerone lo definisce, in una lettera al fratello, “Il più grande caso di corruzione elettorale della storia repubblicana” (ambitus redit immanis, numquam fuit par). Ricordiamo che Lucrezio dipinge un quadro a tinte fosche della sfrenata ambizione politica, al limite della psicopatia. Nel libro III (vv.995-997) del suo poema, Lucrezio sferza l’ambizione politica, paragonandola alla stolta e vana fatica di Sisifo. Il libro III è incentrato sul nesso tra ambizione (caeca cupido) e paura della morte.

Il De Rerum Natura si apre con l’inno-preghiera a Venere (O degli Enèadi madre, agli umani ed ai Numi piacere/Alma Venere, sotto gli astri che scorrono in cielo/Riempi il navigero mare, le terre ripiene di messi;/è per tua grazia che è concepita ogni specie vivente/è grazie a te che creata contempla la luce del sole) e si chiude, alla fine del sesto libro, con il tremendo spettacolo della peste di Atene. Per Lucrezio solo la morte è onnipotente: mors inmortalis. La peste come dire la pandemia: gli incubi ritornano, la storia è circolare. La natura non è amica dell’uomo né madre benigna. Nel libro quinto del suo poema, Lucrezio “dà la colpa a quella/che veramente è rea, che de’ mortali/madre è di parto e di voler matrigna” per mutuare i versi de La Ginestra di Giacomo Leopardi. Enunciata la tesi della mortalità del mondo, Lucrezio critica chi crede che il mondo sia stato, per vantaggio degli uomini, creato dagli dei, e quindi sia eterno: esso risulta invece dalle varie combinazioni degli atomi e quindi soggetto a trasformazione, cioè a morte. La natura e l’universo per Lucrezio non hanno nulla di divino. Tutto è fatto di atomi che componendosi e dissolvendosi creano le forme (gli enti) della natura, compreso l’uomo. Le combinazioni degli atomi si devono al puro caso (clinamen) che è dunque alla base del divenire. 

Stephen Greenblatt

La letteratura come missione salvifica ed educatrice

Il De Rerum Natura è una sorta di Divina Commedia del I secolo a.C. Nell’appendice al suo libro, L’apocalisse di Lucrezio, Politica, Religione, Amore (Raffaello Cortina editore), Ivano Dionigi, professore emerito di lingua e letteratura latina all’Alma Mater studiorum di Bologna, spiega nel capitolo finale (Appendice) le affinità tra Lucrezio e Dante (Lucrezio e Dante tiranni della lingua), anche se Dante non poteva conoscere direttamente il poema di Lucrezio.

«Lucrezio e Dante, il De Rerum Natura con i suoi circa 7.415 esametri e la Commedia con i suoi 14.233 endecasillabi mostrano analogie e convergenze conclamate che non possono non sorprendere. Sono poeti del cosmo: res magnae, “cose grandiose”, e res novae, “cose inaudite”, annuncia Lucrezio, il quale, sulla scia di Empedocle, ha messo in versi la fisica; “poema sacro,/al quale ha posto mano e cielo e terra” compone  Dante (Paradiso 25, 2), il quale ha messo in verso la teologia. Entrambi visionari e poeti dell’invisibile: Lucrezio descrive gli atomi e il vuoto, Dante i dannati e i salvati dell’aldilà. Sono poeti del viaggio oltremondano: Lucrezio, al pari di Epicuro, osa dare l’assalto al cielo (I, 66-67: mortalis tollere contra/est oculos ausus); Dante scende all’Inferno e poi sale al Paradiso, compie la catabasi di Enea e l’anabasi di San Paolo, anche se si schermisce: “Io non Enēa, io non Paulo sono” (Inferno, 2, 32). Sono poeti della conoscenza: Lucrezio si propone di indagare le cause dell’universo tramite “la visione e la scienza della natura” varcando, sulla scia del maestro Epicuro, i confini dell’universo (I, 72-73: extra/moenia mundi”; Dante, pur proteso alla conoscenza di Dio, sarà tentato dalla curiositas di Ulisse a “seguir virtute e conoscenza” (Inferno, 26, 119)».

Luciano Canfora

Lo spirito della Divina Commedia, la volontà di rinnovamento morale e spirituale dell’uomo, posta da Dante come solido fondamento su cui edificare tutta l’imponente e meravigliosa cattedrale del suo poema, non è di natura diversa dall’afflato palingenetico che animava Lucrezio quando scriveva il De rerum Natura. Certo, il poema lucreziano è un inno a Epicuro, che Dante condanna senza mezzi termini fra gli eretici (ma colloca nel Limbo, dov’è relegato anche Virgilio, Democrito, precursore filosofico di Epicuro, quel Democrito “che ‘l mondo a caso pone”, Inf. IV, 136). Ma Lucrezio e Dante sono accomunati dalla medesima sete di libertà (intellettuale, morale e politica) e conoscenza. Lucreziana è la consapevolezza dantesca di seguire un percorso immaginativo e poetico molto lontano dalle comuni strade della fantasia umana. Le metafore in apertura del II del Paradiso (i memorabili incipit dei canti danteschi!) della “piccioletta barca” (cioè le nostre limitate conoscenze) opposta al ” mio [scil. di Dante] legno che cantando varca” e quindi l’invito a noi poveri mortali a non mettersi in “alto mare” per seguire l’arduo percorso della poesia del paradiso, perché, in quanto “piccioletta barca”, non riusciremmo a stargli dietro, connotano la consapevolezza di scrivere cose nuove, difficili, mai tentate prima: 

“L’acqua ch’io prendo già mai non si corse” (Par. II, 7)

Questa orgogliosa dichiarazione dantesca sembra riecheggiare la consapevolezza, altrettanto fiera, di Lucrezio quando manifesta a chiare lettere la coscienza di muoversi per i luoghi remoti delle Pieridi, mai calpestati prima da nessuno: 

“Non mi nascondo che si tratta di argomenti oscuri,
ma una grande speranza di gloria, con la punta del suo tirso,
ha toccato il mio cuore. E così mi sento invaso dal dolce amore 
delle Muse, che mi spinge a percorrere con la mente in fiamme
terre delle Pieridi mai calpestate da passi umani.
E mi appassiona accostarmi a sorgenti ancora vergini 
e placare così la mia sete, cogliere fiori mai visti prima,
incoronare me stesso con una ghirlanda meravigliosa
che le Muse non avevano mai messo sulla fronte di nessuno.
In primo luogo mi addentro nei temi più profondi e mi impegno
a liberare l’animo dagli stretti nodi del timore religioso.
E poi faccio splendere su un argomento oscuro versi luminosi
spargendo su ognuno di loro la grazie della poesia”.
(I, 922-934, traduzione di Milo De Angelis, Mondadori 2022)

Certamente più lucreziana che virgiliana (almeno del Virgilio autore dell’Eneide) è quella tendenza dantesca alla riflessione metalinguistica, all’affermazione dei limiti insiti nel linguaggio comune, soprattutto in rapporto alla difficoltà degli eventi e dei concetti che si trova a descrivere nel viaggio ultraterreno: 

“S’io avessi le rime aspre e chiocce
come si converrebbe al tristo buco
sovra’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo:
ma quelle donne aiutino il mio verso 
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso”.
(Inf., XXXII, 1-12)

Questi versi danteschi richiamano famosi esametri di Lucrezio nei quali il poeta romano lamenta, quasi scusandosi con il lettore, la difficoltà di esprimere in versi latini le “oscure scoperte” dei Greci, a  causa soprattutto della inadeguatezza del vocabolario latino (la egestas linguae) di fronte alla ricchezza lessicale dei greci, un motivo dibattuto ai tempi di Lucrezio e Cicerone (il quale non avrebbe certo sottoscritto questa affermazione lucreziana): 

“Non mi faccio illusioni: è difficile spiegare con chiarezza
In versi latini le oscure scoperte fatte dai Greci,
Tanto più che molti temi vanno trattati con parole nuove
Per la povertà della nostra lingua e la novità dell’argomento”
(I, vv.136-139, traduzione di Milo De Angelis, De rerum Natura, Mondadori, 2022)

Poeti dell’invisibile entrambi, ma, attenzione, entrambi, Lucrezio e Dante, poeti di grande e insuperata “visività”, poeti iconopoietici per eccellenza. Lo ricorda anche Italo Calvino in Lezioni americane: “Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi…Al momento di stabilire le rigorose leggi meccaniche che determinano ogni evento, egli sente il bisogno di permettere agli atomi delle deviazioni imprevedibili dalla linea retta, tali da garantire la libertà tanto alla materia quanto agli essere umani”. 


Lucrezio, De rerum natura, testo a fronte, traduzione di Milo De Angelis, Mondadori Lo Specchio, 2022
Ivano Dionigi, L’apocalisse di Lucrezio, Politica, Religione, Amore Raffaello Cortina editore, 2023
Stephen Greenblatt, Il Manoscritto (come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea), Rizzoli Bur, 2023
Lucrezio, Il poema della natura, testo a fronte, traduzione di Milo De Angelis, Mondadori, 2023
Luciano Canfora, Vita di Lucrezio, Sellerio, 2024

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