La morte di Pasolini è una tragedia (scandalosamente ancora irrisolta), in tutto e per tutto appartenente a quei torbidi misteri a cavallo tra delinquenza comune, criminalità organizzata, estremismo politico e strane connivenze, che caratterizzano la storia d’Italia del secondo dopoguerra. Senza la pretesa di addentrarci in questa sede tra le pieghe del mistero, cerchiamo di capire come il cinema, negli anni, ha raccontato questa “storia sbagliata”. 

Lasciando stare documentari e speciali realizzati per ricorrenze e celebrazioni, nel corso degli anni sono stati ben tre i film di fiction dedicati all’omicidio dello scrittore o alla ricostruzione dei suoi ultimi giorni di vita. Tutti tratti da libri.
In ordine cronologico: Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, realizzato nel 1995 in occasione del ventennale dalla morte e ispirato a un omonimo volume dello stesso Giordana, nonché alla prima ricostruzione del delitto fatta da Enzo Siciliano in Vita di Pasolini, edito nel 1978; Pasolini, poeta maledetto di Abel Ferrara, del 2014, che mescola la realtà a sequenze tratte dall’ultimo romanzo, incompiuto, di Pasolini, Petrolio; e infine La macchinazione di David Grieco, del 2015, tratto dal saggio omonimo scritto sempre da Grieco. 

Pasolini, un delitto italiano, primo in ordine temporale, come fa ben intendere il titolo è in tutto e per tutto un “film-inchiesta”, interamente dedicato alle indagini e alla vicenda processuale, ricostruendo un lasso di tempo che va dal ritrovamento del cadavere del poeta alla sentenza di primo grado a carico di Giuseppe Pelosi. Dal punto di vista del rigore filologico, della perizia di ricostruzione, il film è a tutt’oggi insuperato. Non esiste a mio avviso documentario o reportage che meglio del film di Giordana – che non a caso è uno degli intellettuali che meglio conoscono, e sanno rappresentare, gli anni ’70 in tutta la loro contraddizione, violenza, cupezza ed esuberanza creativa – riesca a ricostruire in maniera più efficace, chiara e comprensibile l’omicidio Pasolini, il modo in cui fu recepito sia dall’opinione pubblica, sia dal mondo della cultura che da quello della politica, le mille ombre inquietanti che ancora vi aleggiano sopra, le infinite zone d’ombra, gli errori evidenti (e forse voluti) delle indagini ufficiali e della giustizia ordinaria. 

Tutto questo nonostante il film, preso nel suo complesso e non soltanto nella sua importanza “civile” e di ricostruzione storica, soffra, e non poco, una recitazione assai debole e un cast quasi completamente sbagliato. Se reggono i ruoli di contorno (convincono soprattutto i visi dei borgatari e dei “ragazzi di vita”), lasciano molto più che perplessi gli interpreti principali: Giulio Scarpati in primis, molto poco credibile nel ruolo dell’avvocato Marazzita (su cui poggia la maggior parte del film), idem per Claudio Bigagli che interpreta Guido Calvi e per Fassari nel ruolo dell’avvocato della difesa. Per non parlare di Nicoletta Braschi che interpreta Graziella Chiarcossi. Nessuno invece interpreta Pasolini, anche nei numerosi flashback che ricostruiscono le fasi cruciali dell’assassinio lo scrittore è una figura in penombra mai mostrata in viso. Una scelta precisa del regista, azzeccata a nostro avviso, che voleva sottolineare l’impossibilità di riprodurre in qualsiasi modo Pasolini. 

Pasolini è invece mostrato eccome – ed è il personaggio principale – negli altri due film. Partiamo dall’ultimo, ovvero Macchinazione di David Grieco. Nella sfida (pazzesca per un attore) di ri-dare corpo e voce (e naturalmente anima) a Pasolini, è stato chiamato Massimo Ranieri. E di certo Ranieri è un grandissimo interprete, e la somiglianza con Pasolini è per certi versi addirittura impressionante. Eppure, nonostante le premesse, è proprio l’interpretazione di Ranieri uno dei punti meno convincenti del film: generoso, passionale ed encomiabile come sempre, si ha però l’impressione che l’attore-cantante napoletano sull’evidenza incontestabile della sua somiglianza col poeta ci si sia seduto e adagiato, finendo per gigioneggiare e trasformare il tutto in una macchietta, a volte involontariamente grottesca, più spesso frivola e superficiale. Inoltre, particolare non da poco: la voce di Pasolini è inconfondibile, nel tono e nell’accento. Il chiaro e – non si capisce perché – ostentato accento napoletano di Ranieri rendono il personaggio completamente assurdo e annullano la somiglianza fisica. 

Ma Ranieri non è il colpevole della debolezza del film: egli è semplicemente una parte malriuscita di un film completamente malriuscito. Proprio nel suo impianto. Nato con premesse apocalittiche e con la pretesa altissima di essere un gigantesco affresco di denuncia poltica, il film si sgonfia all’istante in una trama confusa, abborracciata. Grieco nelle intenzioni vorrebbe svelare quella “macchinazione” che avrebbe ideato, diretto e messo in atto il delitto Pasolini, nella pratica non fa altro che affastellare pezzi di indagini, piste saltate fuori in qualche contro inchiesta e mescolare il tutto in un magma di difficile comprensione. 

Seguendo una delle infinite versioni date da Pelosi nel corso degli anni (quella secondo cui lui e Pasolini si conoscevano da settimane prima l’omicidio, scelta dal regista non si sa secondo quale criterio scientifico, giudiziario e di attendibilità), il racconto accavalla le indagini di Pasolini sul petrolio e la figura di Cefis, l’invenzione di uno scrittore autore di un libro su Cefis pressato dai servizi segreti, il furto delle pizze di Salò da parte di un gruppo di borgatari amici di Pelosi. E il problema più grave non è che in questo film manca la verità (anzi, fornisce una pista credibile che andrebbe finalmente indagata con attenzione), ma che manca la voglia di verità, la rabbia per non poterla avere, l’urlo di continuare a cercarla. 

Un film invece grandioso è il Pasolini di Ferrara. Già dalle intenzioni, segue la strada opposta di Giordana: consapevole in partenza di non poterla avere, la verità, sceglie la strada visionaria. Con un risultato grandioso: come Bellocchio con il caso Moro, così Ferrara riesce, affidandosi alla visione pura, a intromissioni puramente fantastiche in un rigore storico comunque rispettato e seguito, a essere più realistico del realismo. E, soprattutto, a inquietare più che con il film-inchiesta puro, più che con la pretesa di ricostruzione e denuncia apocalittica. A farci toccare lo scandalo della morte di certo non accidentale del poeta. A indignarci. A commuoverci. A farci sentire il torbido indicibile che sottende questa storia terribile. 

Immagini splendide, una Roma restituita in maniera poetica e angosciante, le borgate che urlano dal loro ventre imputridito. E poi Defoe, che nel ruolo di Pasolini è pazzesco, restituendo tanto nei dettagli quanto nell’insieme l’idea più autentica di Pasolini, i suoi tic, i suoi modi di fare, di esprimersi. Tutto il cast è comunque azzeccato, in particolare Adriana Asti nel ruolo della madre del poeta e Riccardo Scamarcio nel ruolo di Ninetto Davoli. 
Un film da vedere assolutamente, che mescola visioni, quotidianità e storia. 

E inoltre, fruga con sapienza e risultati altissimi laddove nessuno mai aveva osato mettere mano: ricostruisce, in splendide sequenze, alcuni capitoli del monumentale e incompiuto Petrolio… e gira le scene principali di quel film mai realizzato da Pasolini, quello raccontato a Ninetto Davoli la sera stessa della sua morte e di cui ci ha lasciato un piccolo soggetto di un paio di pagine. Un soggetto che termina con la frase: “nun esiste la fine”.

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