Esistono da sempre opere in grado di farsi spartiacque, crocevia tra un prima e un dopo. Non necessariamente le migliori, non necessariamente capolavori assoluti e universali, ma opere che, per una serie di ragioni non sempre strettamente artistiche, finiscono per sparigliare le carte, cambiare le regole della scrittura e della rappresentazione. E incidere inevitabilmente a fondo in un certo immaginario collettivo.
Romanzo criminale, libro di Giancarlo De Cataldo uscito nel 2002 per Einaudi, ispirato all’incredibile storia della Banda della Magliana, è indubbiamente una di queste.
In primis perché, come dice il titolo, pur raccontando un pezzo di storia recente e particolarmente importante del nostro paese, è a tutti gli effetti e indiscutibilmente un romanzo. Il che, di per sé, non sarebbe una grande novità. Da Manzoni al neorealismo, l’evoluzione del romanzo italiano ha avuto proprio nella raffigurazione della storia materiale i suoi momenti più alti e felici. Ma, sempre seguendo la lezione manzoniana, il vero storico ha sempre fatto da sfondo, lasciando al verosimile l’onore dell’intreccio. Nonché dei personaggi principali.
Romanzo criminale però segue una strada diametralmente opposta. Vale a dire che il vero storico, i personaggi realmente esistiti, passano in primo piano, lasciando il verosimile nel solo ambito dell’esigenza di ritmo narrativo. In sostanza, dal romanzo storico alla storia romanzata. Di lì in avanti, sarà un autentico diluvio di opere di questo genere, fortunatissimo, che dura tutt’oggi.
Ma è questa l’unica rivoluzione. De Cataldo, che arriva a scrivere il suo romanzo più celebre forte di una ricerca poderosa, fatta in particolare dalla lettura integrale di oltre cinquantamila pagine di atti processuali riguardanti le indagini sulla Banda, ribalta completamente lo schema classico della crime novel rendendo protagonisti i “cattivi”. Per quanto infatti il personaggio del commissario Scialoja (lui sì, interamente di fantasia), che dedica tutta la sua vita alle indagini sulla banda, sia a dir poco fondamentale nell’intreccio, i veri protagonisti sono i capi della più grande organizzazione criminale mai esistita sulla piazza di Roma, la cui storia si intreccia misteriosamente e nella più inquietante delle maniere, con tutti i più grandi misteri d’Italia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta (il rapimento Moro, il caso Orlandi, la strage di Bologna, la loggia P2 di Licio Gelli, tanto per dirne alcuni): il Libano, il Freddo, il Dandy prima di tutti, ma poi anche Bufalo, i fratelli Buffoni, Fierolocchio, Scrocchiazzeppi… (tutti ricalcati sui veri criminali della Banda della Magliana).
Sono loro, tanto nell’escalation criminale quanto nelle vicende personali, a dettare il ritmo del racconto, a scandire le sequenze narrative, è loro il punto di vista con cui leggiamo e vediamo l’intera storia. Una soluzione originalissima – e destinata a fare scuola nell’immediato, che non mancò (né manca) di suscitare polemiche. Ci si chiedeva, e ci si chiede, quanto sia moralmente accettabile l’idea di trasformare di fatto dei criminali assassini in eroi. Polemica del tutto pretestuosa, visto che il meccanismo, oltre al voler raccontare un pezzo di storia in tutte le sue contraddizioni, punta all’esatto contrario, ovvero allo svelamento del meccanismo perverso e criminale del potere dal suo interno.
Il poderoso romanzo di De Cataldo (oltre seicento pagine) è opera straordinariamente avvincente, trascinante, che inchioda il lettore facendosi letteralmente divorare, con un ritmo sincopato e altissimo che, pur raccontando fatti noti di cui più lettori possono già conoscere gli esiti, mantiene intatta la suspense dalla prima all’ultima pagina. Un capolavoro contemporaneo che, forte anche del suo eccellente stile “visivo”, è diventata film nello spazio di un niente. Un film per la regia di Michele Placido (che ancora oggi, assurdamente, dichiara di non aver mai letto tutto il libro), con una sceneggiatura firmata dal prestigioso duo Rulli e Petraglia assistiti dallo stesso De Cataldo, che, pur stravolgendo in alcune parti il romanzo (e vero storico) in maniera consistente (a partire dall’idea dei tre leader, Libano, Freddo e Dandy, amici d’infanzia), ne ha replicato il clamoroso successo, mettendo insieme un cast comprendente tutta la “meglio gioventù” del cinema italiano di allora (correva l’anno 2005): da Pierfrancesco Favino (Libano) a Kim Rossi Stuart (Freddo), da Claudio Santamaria (Dandy) a Stefano Accorsi (Scialoja), da Jasmine Trinca (Roberta) a Riccardo Scamarcio (Nero).
Il film, rispetto al libro, inevitabilmente comprime, agisce continuamente per ellissi, e pur nelle sue tre ore di durata, elimina giocoforza personaggi importanti e situazioni cruciali. Con due conseguenze. La prima è che la narrazione che ne deriva è episodica, e quindi particolarmente congeniale a restituire tutta l’epica criminale di una vicenda che, pur se realmente accaduta, resta ai limiti dell’incredibile. La seconda è che, purtroppo, si perde quasi per intero la riflessione storica e politica alla base del romanzo, quella dimensione di grande affresco in cui il contesto dove tutto accade non è mero sfondo, ma elemento attivo e determinante.
Pluripremiato e pluricelebrato, il film, pur non presentando particolari innovazioni estetiche, inaugurò comunque un genere e, al pari del romanzo, si pose come modello e termine di paragone negli anni a venire.
Soprattutto fu la principale premessa alla fortunatissima e omonima serie TV.
Al di là del genere specifico, all’alba dello strapotere della narrazione seriale, l’opera, con la grande regia di Stefano Sollima, fu capostipite indiscussa – e a nostro avviso tuttora insuperata – della serialità italiana.
Sfruttando al massimo l’ampio respiro narrativo offerto dal format – 22 puntate di cinquanta minuti – la serie non solo va a colmare la mancanza principale del film, riuscendo a raccontare nel profondo le mille contraddizioni del paese nel suo periodo storico più tumultuoso e complesso, ma addirittura, in alcuni punti, propone uno scavo e un’indagine socio-politica maggiore di quella del romanzo, finendo per configurarsi anch’essa come un riuscito affresco storico dal ritmo narrativo vertiginoso e irresistibile.
La regia di Sollima, più equilibrata di quella di Placido, segue i personaggi, ne asseconda le evoluzioni interiori, rilanciando e portando alle estreme conseguenze un’intuizione felice del film, ovvero una colonna sonora attiva, con musiche così efficaci e lietamente invadenti che finiscono per interagire con azioni e personaggi, imprimere intere sequenze nella memoria dello spettatore in maniera indelebile.
Per gli interpreti, Sollima va nella direzione di un azzardo che alla fine si rivelerà vincente. Niente volti noti, ma tutti sconosciuti o quasi. I bravissimi esordienti, Montanari e Marchionni in primis (Libano e Freddo), o gli splendidi personaggi secondari (indimenticabile Giallini nel ruolo del Terribile), non essendo volti da copertina, risultano terribilmente più credibili.
L’essere, infine, una storia chiusa, che circoscrive la serialità impedendo a priori la possibilità di una fine “sine die” dettata più dagli ascolti che da esigenze narrative, ha evitato scivolamenti sgradevoli nel pantano della fiction, come successo ad altre serie di indubbia qualità, almeno all’inizio (penso, soprattutto, a Gomorra).
Libro, film e serie.
Tre belle opere, in definitiva. Con l’esplosione definitiva della serie, così riuscita che ancora oggi si fa vedere e rivedere.
E fa scuola, su come anche in Italia dia decisamente possibile fare serie TV di qualità.
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