Harold Pelham (Roger Moore) è un uomo stressato. Dirigente presso un’importante industria della tecnologia marittima, fa tutto troppo rapidamente. Fa la spola ai quattro angoli di Londra, partecipa a tutte le riunioni e gli incontri, oltre ad essere a capo di un ambizioso progetto di cessione ad una multinazionale che non condivide. Allo stesso tempo, l’uomo è attaccato ai valori tradizionali. Ha due figli e, nonostante le solite difficoltà quotidiane, vuole essere un buon padre oltre che un marito attento anche se, sopraffatto dagli eventi, trascura sempre più spesso sua moglie (Hildegarde Neil). Che, nonostante tutto, appare molto comprensiva. Una sera, mentre guida la sua vettura, sembra trasfigurarsi e si mette a correre ad una velocità tale che esce di strada e si schianta violentemente. Si sveglia poco più tardi in ospedale e scopre di essere stato vicino alla morte. La guarigione, tuttavia, avviene abbastanza rapidamente ed esce dalla clinica come fosse un uomo nuovo, guarito, pieno di buoni propositi.
Tornato al lavoro, apprende che l’azienda approverà la fusione con l’altro gruppo senza mezzi termini. Si sorprende perché gli viene comunicato che è stato lui stesso a sostenere questa fusione. Ma non è tutto, in breve si accumulano i dettagli più strani. Tutti quelli che incontra, colleghi e amici, dicono di averlo visto in posti dove lui stesso è certo di non essere mai stato. Gli vengono consegnati i soldi di una scommessa vinta durante una partita di biliardo al bar club il giovedì precedente mentre si trovava in Spagna per lavoro. In un altro contesto, un conoscente che non gli piace viene a casa sua, sostenendo di essere stato invitato dallo stesso Pelham. Per non parlare di una donna che incontra in piscina e che afferma di aver trascorso un’intera notte d’amore con lui.
È pazzesco. Pelham ha un doppelganger? Soffre di schizofrenia o di allucinazioni? Nonostante il verdetto dei medici attesti che non presenta conseguenze post-traumatiche, dopo l’incidente le cose non stanno più andando nel verso giusto. La sua piccola vita ordinata di un tempo non esiste più e la paranoia non fa altro che crescere…
Nel 1970, Roger Moore, anche se aveva già girato qualche film, si era fatto conoscere attraverso la televisione grazie alla serie Ivanhoe (1958-59), e soprattutto Il Santo (The Saint, 1962-69). Interpretando L’uomo che uccise sé stesso (The Man Who Haunted Himself, 1970), di Basil Dearden, determinò le condizioni per mostrare il suo talento e per aprirgli strada alla serie di James Bond con Agente 007 – Vivi e lascia morire (Live and Let Die, 1973), di Guy Hamilton. Ironia della sorte, nel film c’è un’allusione diretta al mitico agente segreto (“Non sono James Bond, dopotutto!”, dichiara Moore ad un certo punto).
L’uomo che uccise sé stesso è l’adattamento per il grande schermo dell’episodio Il caso del signor Pelham (TheCase of Mr. Pelham, 1955), diretto da Alfred Hitchcock, scritto da Anthony Armstrong (dal suo racconto del 1940, poi sviluppato in romanzo nel 1957) per la serie Alfred Hitchcock presenta (Alfred Hitchcock Presents, 1955-62) con alcune aggiunte alla sceneggiatura dovute a Bryan Forbes, che presentano alcune atmosfere che si ritroveranno in A faccia nuda (The Naked Face, 1984), dello stesso Forbes, che in seguito dirigerà Moore in numerosi episodi di Attenti a quei due (The Persuaders!, 1970-71).
Basil Dearden è un regista solido ed esperto, con 35 film al suo attivo quando realizza questo che sarà il suo ultimo lavoro: muore in seguito ad un incidente automobilistico, proprio come avviene alla fine del film. Certo la vicenda della scissione di personalità avrebbe richiesto una maggior complessità, la descrizione di una crescente paranoia mal si amalgama con una storia narrata in maniera lineare, sviluppata in modo troppo classico e teatrale ed è, in definitiva, tutta sulle spalle di Roger. Che però è in splendida forma e, da solo, riesce a trasmettere sullo schermo tutti i tormenti del suo (doppio) personaggio. Una discesa agli inferi assolutamente convincente.
Il vero difetto di L’uomo che uccise sé stesso è la sua lunghezza, riaspetto all’episodio hitchcockiano di trenta minuti. I contenuti aggiunti talvolta rallentano il ritmo, sono ripetitivi e rasentano l’incoerenza.
Per esempio: ad un certo punto Pelham va da uno psichiatra, che lo fa addormentare per un lungo periodo di tempo, forse anche diversi giorni, per esaminare il suo caso. Pelham, sebbene descritto come un uomo ordinato, non pensa mai di avvertire sua moglie. E naturalmente, durante il periodo del suo sonno artificiale, il suo doppio si intromette nella sua casa, si prende cura dei suoi figli, fa l’amore con sua moglie, tutto questo prima che Pelham rientri a casa sua per rendersi conto di essere stato ingannato. A questa mancanza di buon senso, di fatti che sembrano fluire con naturalezza, ce ne sono altri qua e là che finiscono per minare la credibilità dell’insieme, l’armonia tra una recitazione perfetta e una messa in scena poco fluida. Come il rapporto quasi posticcio tra il nostro “poveretto” con la moglie, che lo sospetta di infedeltà, che ci regala qualche scena domestica e soprattutto tante chiacchiere inutili che spezzano il ritmo.
In effetti, nell’episodio televisivo Pelham era originariamente single, il che ha permesso di evitare le lungaggini citate e non poche improbabilità.
Nonostante queste imperfezioni, L’uomo che uccise sé stesso è diventato un film di culto, soprattutto per i fan di Roger Moore, che eccelle nel registro della fragilità. Un’opera dotata di grande fascino, aiutata in questo dall’atmosfera dei sobborghi londinesi. Magistralmente ripresi dalla bellissima fotografia di Tony Spratling commentata dalla superba colonna sonora di Michael J. Lewis. E poi ci sono due splendide vetture: la Triumph che si trasforma nella diabolica Aston Martin.
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