Tra i dipendenti pubblici della città di Pavia negli anni ‘30, all’ultimo gradino della scala burocratica, c’è Carmine de Carmine (Renato Rascel). Scrivano timido, zelante, povero fino alla miseria, Carmine si aggira nei suoi vestiti logori e rattoppati e, pur lavorando con diligenza, viene continuamente mortificato dal segretario generale del comune e dal Podestà. L’uomo acquisisce piena consapevolezza della sua miseria quando una bella passante da cui si sente attratto gli fa l’elemosina in strada scambiandolo per un mendicante: Carmine corre dal sarto ma per il cappotto nuovo che gli farebbe riacquistare dignità, i risparmi di una vita non sono sufficienti. Sul lavoro però assiste per caso ad un colloquio compromettente in cui degli imprenditori promettono una tangente al segretario che, per comprarsi il silenzio di Carmine, gli promette un cospicuo premio di produttività. Il cappotto è pronto e calza davvero a pennello: l’uomo crede di essere giunto alla fine delle sue tribolazioni, ma nella realtà le cose si complicano…

Il racconto breve Il cappotto di Nikolaj Vasilevič Gogol era già stato oggetto di una trasposizione cinematografica (di Grigorij Kozintsev e Leonid Trauberg nel 1926), quando Alberto Lattuada accettò di dirigerlo per una modesta casa di produzione messinese, la Faro Film, che fino ad allora si era specializzata in documentari turistici. Il regista era reduce dal successo commerciale del suo film precedente Anna e quindi si sentiva particolarmente sicuro di sé nel muoversi sul terreno a lui congeniale dell’adattamento di un’opera letteraria. La filmografia di Lattuada testimonia il suo spiccato interesse per la letteratura e il cineasta si ispirò in altre due occasioni ad autori russi nel 1958 a Puškin per La tempesta, e nel 1962 per La steppa a Čechov.

Con Il cappotto Lattuada realizza un’opera riuscitissima, fedelissima allo spirito del grande scrittore russo sebbene si discosti in parte dal racconto. Lattuada e i suoi sceneggiatori (tra cui lo scrittore Luigi Malerba) hanno notevolmente rimpolpato l’argomento molto sottile del racconto spostando l’azione nello spazio e nel tempo. Ma se il film è pieno di dettagli precisi e deliziosi che gli danno un solido fondamento realistico (Carmine che si scalda le mani davanti alle narici di un cavallo), il prodigioso lavoro dello scenografo Gianni Polidori e del direttore della fotografia Mario Montuori riesce a fanno rivivere sullo schermo un universo surreale con composizioni geometriche quasi astratte. La presenza inquietante della neve e la frequenza delle scene notturne permettono di mostrare lo splendore di un bianco e nero raffinato ma altamente contrastato, e creano un’atmosfera da sogno a occhi aperti o meglio da incubo stranamente attenuato. La scelta di ambientare la vicenda a Pavia, una città poco utilizzata dal cinema, è sfruttata molto bene per rendere il provincialismo opprimente nella sua meschinità che finirà con il determinare la morte del povero funzionario protagonista.

Ma il colpo di genio degli autori è quello di aver scelto Renato Rascel, fino ad allora artista del music-hall e del cinema di rivista, per interpretare il ruolo principale. La sua interpretazione allucinatoria, giocando su una tavolozza di registri, conferisce a questo umile funzionario totalmente alienato dal suo lavoro e inebriato dall’acquisizione del suo nuovo cappotto, una totale credibilità come personaggio della letteratura russa. Rascel fa diventare la satira della burocrazia irresistibilmente e inquietantemente divertente, raggiungendo l’apice dell’umorismo assurdo quando rilegge il verbale di una visita ufficiale e del consiglio comunale che ne consegue: incapace di sintetizzare o semplicemente di ordinare le informazioni, consegna una relazione che non è altro che una serie di parti di frasi senza capo né coda, che rimandano crudelmente il sindaco al vuoto delle sue formule già pronte e della sua vuota retorica.

Intorno a Rascel si muovono Giulio Stival (il sindaco), uomo di potere narcisista ebbro della sua autorità, e Yvonne Sanson, l’amante dalla radiosa sensualità che, amata e desiderata da Carmine, funge da collegamento tra i due uomini. Da segnalare il meraviglioso personaggio del sarto interpretato dallo straordinario Giulio Calì che, orgoglioso per la bellezza del cappotto appena confezionato, lo ammira seguendo di nascosto Carmine per strada e sarà l’unico a partecipare al corteo funebre dell’eroe.

Non sappiamo se Lattuada abbia scelto di girare questo film influenzato in qualche modo dal cappotto più famoso della storia del cinema: il regista ha sempre indicato in M – Il mostro di Düsseldorf il film che l’ha più fortemente impressionato! Quel che è certo è che Il cappotto è un capolavoro di poesia surreale che riesce a essere allo stesso tempo irresistibilmente divertente, inquietante, commovente e perfino travolgente. Un’opera imprescindibile all’interno della filmografia di Lattuada, un regista di cui non sempre viene riconosciuto il reale valore.

 

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